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Channel: Progetto Condor – Pagina 27 – IsAG // Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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D. Scalea all’incontro bolognese “Rivolte arabe: la primavera non arriva”

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Si è tenuta a Bologna mercoledì 9 novembre 2011 alle ore 20.30, presso il centro sociale “Giorgio Costa” di Via Azzo Gardino 48, la conferenza “Rivolte arabe: la primavera non arriva”.

Sono intervenuti come relatori: Daniele Scalea (co-autore di Capire le rivolte arabe e segretario scientifico dell’IsAG) e Joe Fallisi (attivista, testimone dell’aggressione alla Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Eur-Eka“.

Daniele Scalea ha incentrato il suo intervento sul ruolo dei media nelle rivolte arabe. Accompagnando le sue parole con numerosi filmati ed immagini, ha dimostrato come i media abbiano sovente manipolato i fatti, dando ampio risalto a certe notizie (non sempre adeguatamente verificata) e celandone altre non meno significative, e spesso più verificabili.

Scalea ha dunque concluso che i media seguono una loro agenda politica, dettata dagli editori degli stessi, che spesso sono degli Stati implicati in prima persona nei giochi geopolitici che i giornalisti loro dipendenti dovrebbero raccontare in maniera oggettiva e neutrale.

A dx: Daniele Scalea
Il pubblico in sala


USA e Israele: F. Brunello Zanitti intervistato da “Radio Onde Furlane”

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 11 novembre da Mauro Missana, direttore di “Radio Onde Furlane”, a proposito del suo libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. “Radio Onde Furlane” è una testata giornalistica indipendente con sede a Udine che da trent’anni lavora ogni giorno a favore della tutela e della conoscenza della lingua friulana e per un’informazione libera e indipendente. La maggior parte delle trasmissioni sono in friulano. Oltre ad essere ascoltata in tutta la regione Friuli-Venezia Giulia, “Radio Onde Furlane” raggiunge anche i numerosi emigranti friulani presenti in Argentina, Canada e Australia, grazie ai collegamenti streaming presenti sul sito ufficiale dell’emittente.
Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 
Prima parte:

Seconda parte:

 
I Kosovni Odpadki (gruppo musicale di Gorizia; i loro testi e suoni hanno la particolarità di rappresentare le diverse comunità linguistiche regionali: italiana, friulana e slovena n.d.r.) con “Yerushaliam”, un pezzo che si presta molto bene alla presentazione del libro che abbiamo oggi in analisi. E’ di un giovane storico che si chiama Francesco Brunello Zanitti. “Progetti di egemonia”, un libro molto attuale anche se è uscito qualche mese fa. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. Il periodo storico di riferimento è rappresentato in particolare dagli anni ’70, decisivi per capire a livello geopolitico quello che sta succedendo nel presente, anche le piccole rivoluzioni. E’ tutto strettamente collegato. Tutto quello che succede nel mondo lo vediamo attraverso la televisione, ma Francesco Brunello Zanitti ha cercato di spiegarlo in questo libro, edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro. Prima di tutto partiamo dall’interesse per la storia, perché tu sei uno storico che fa parte di un istituto che pubblica una rivista, “Eurasia”. Spiegaci meglio.

Il volume “Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto” è edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro, come ricordato giustamente dal direttore Missana, per conto dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, un’associazione culturale che ha come obiettivo la promozione della conoscenza, dello studio e dell’applicazione della geopolitica. In particolare, io sono ricercatore per l’area Asia Meridionale, contribuendo, inoltre, alla rivista di questo istituto, “Eurasia”. La mia ricerca si concentra soprattutto su questioni legate all’India, al Pakistan e all’Afghanistan. In questo libro ho invece considerato un altro aspetto della politica internazionale e della geopolitica.

Ecco, una questione importante di questo libro che mi ha stupito è che i neoconservatori statunitensi non sono sorti strettamente “a destra” ma sono nati “a sinistra”, delusi dalla cosiddetta “sinistra americana”. Parlare di “sinistra e destra americana” è difficile nel senso italiano. Il fatto è che il movimento sorse da esponenti delusi, ad esempio economisti, alcuni di origini ebraica. Allo stesso tempo esiste una sorta di delusione anche nello Stato israeliano per la classe dirigente politica. Come nascono il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano? E quando si possono trovare i maggiori punti di contatto e perché?

Innanzitutto bisogna tener presente che tra Stati Uniti e Israele c’è sempre stata una speciale relazione. Neo-conservatorismo statunitense e neo-revisionismo israeliano hanno enfatizzato questa relazione molto importante. Il neoconservatorismo nasce, come giustamente ricordava, da un periodo di crisi per gli Stati Uniti; sorse dal Partito Democratico perché si era in una situazione in cui gli Stati Uniti si trovavano in una fase di crisi morale dopo la sconfitta in Vietnam. Esisteva in un certo senso la volontà di riprendere per il paese un ruolo di primo piano a livello globale e allo stesso tempo si vedeva in Israele l’unico garante della democrazia nel Vicino Oriente. La speciale relazione tra Stati Uniti e Israele è stata enfatizzata con l’ascesa al potere del gruppo neoconservatore, durante la presidenza di Ronald Reagan, ma successivamente soprattutto con la presidenza di George W. Bush. Ho cercato di analizzare le origini storiche e ideologiche di questi due movimenti che sono molto diverse. Analizzando il pensiero di questi due gruppi politici e gli scritti si possono trovare numerose analogie; a questo proposito ho utilizzato come fonti gli articoli pubblicati su riviste specializzate, ad esempio “Commentary”, la rivista principale dei neoconservatori.

Ho notato che hai utilizzato molto anche Internet.

Sì, su Internet si possono trovare diverse fonti per comprendere il pensiero dei due gruppi. Come dicevo, si trovano degli interessanti punti in comune. Per esempio, un forte nazionalismo. Come si può vedere dagli eventi politici avvenuti nel corso degli ultimi trent’anni, molto più marcato nella destra israeliana rispetto al neoconservatorismo. Poi ci sono le tendenze espansionistiche e militariste connesse a un’idea di egemonia regionale nel Vicino Oriente per Israele e un’egemonia mondiale per quanto riguarda gli Stati Uniti. C’è l’idea poi di considerare le proprie nazioni come eccezionali e assolutamente necessarie.

Questo è un punto in comune molto interessante.

Sì, è un punto in comune molto importante. L’eccezionalismo statunitense è sempre esistito fin dal XIX secolo e in un certo senso fin dalla nascita degli Stati Uniti, i quali sorsero in contrapposizione al Vecchio Continente. Questo eccezionalismo però a seconda dei periodici storici è prevalso o meno, ha avuto una maggiore forza o meno. Con i neoconservatori l’eccezionalismo raggiunge forse il livello più alto.

Ma questo ha provocato una sorta d’isolamento. Si legge anche nel tuo libro questa idea di credersi i migliori. Ci sono diversi articoli all’interno di “Progetti di egemonia” che sono chiari quando presentano l’eccezionalità statunitense e la debolezza, ad esempio, dell’Europa. Di eccezionalità a livello politico e militare. In questo saggio si parla spesso di utilizzare la forza militare per risolvere precise questioni, quasi chirurgicamente. Da quello che è scritto nel tuo volume si comprende chiaramente quale sia stata l’escalation che c’è stata negli ultimi dieci anni se si pensa all’Afghanistan, all’Iraq. Si capisce anche questa spinta a riguardo dell’Iran e della Siria. Si capisce perché si sono verificate alcune rivoluzioni, tanto legate a questo dualismo Israele-Stati Uniti che non si capisce alla fine se vi è solamente una grande alleanza oppure quanto prevalga l’interesse nazionale.

In un certo senso l’eccezionalismo, soprattutto secondo la mia opinione nel caso israeliano, comporta una sorta d’isolamento a livello internazionale. Se si pensa, infatti, alle critiche che sono state fatte nei confronti dell’amministrazione Bush dopo l’intervento in Iraq, oppure alla percezione dell’America nel mondo musulmano dopo lo stesso intervento in Iraq. Questo eccezionalismo e il voler intervenire ad ogni costo in territori del mondo per i propri interessi con allo stesso tempo l’idea comunque di voler esportare un determinato modello culturale e un sistema di valori, tutto ciò comporta alla fine anche un isolamento di Stati Uniti e Israele a causa dell’adozione di politiche unilaterali.
Per quanto riguarda il caso siriano, iraniano e le rivolte arabe degli ultimi mesi sono interessanti da notare due punti fondamentali. Innanzitutto che nonostante l’amministrazione Obama non abbia legami con il neo-conservatorismo, in un certo senso c’è ancora latente questa idea di voler intervenire in determinate aree per difendere degli interessi geopolitici molto importanti. Per quanto riguarda Israele non è corretto affermare che lo Stato ebraico difenda in ogni caso l’operato statunitense, per quanto concerne, ad esempio, le rivolte arabe. Israele è molto allarmata per quello che è accaduto in Egitto o in altri territori del mondo arabo perché si è perso quello status quo che in un certo senso favoriva gli interessi strategici israeliani.
Per quanto concerne la bomba atomica iraniana è un altro discorso.

Si discuteva a suo tempo anche dell’Iraq. Io non discuto nulla, non è comunque che mi fidi a livello personale dell’Iran e della sua politica interna. Però stranamente…

Essendo comunque uno Stato sovrano alla fine la politica autonoma statale non si può decidere dall’esterno. Si può legittimamente avere un’opinione contraria al nucleare civile, però quando uno Stato autonomamente decide la sua politica interna diventa difficile decidere per questo Stato cosa è opportuno fare.
Più che un problema militare (è improbabile che l’Iran attacchi lsraele con un bombardamento atomico poiché si troverebbe la risposta immediata e molto più forte dello Stato ebraico e degli Stati Uniti) si tratta, secondo me, di un problema geopolitico. Un’eventuale bomba atomica iraniana scatenerebbe una competizione regionale molto forte che è già evidente.

C’è il Pakistan ad esempio.

C’è il Pakistan, ma soprattutto l’Arabia Saudita, la Turchia e naturalmente Israele. E’ molto forte la competizione tra mondo sunnita guidato dall’Arabia Saudita e universo sciita guidato dall’Iran. Eventualmente una bomba atomica iraniana scatenerebbe una corsa al nucleare nella regione, poiché l’Iran, unitamente ad avere un potere deterrente nei confronti degli Stati Uniti e d’Israele, aumenterebbe la propria influenza regionale e questo non va bene per Israele, ma soprattutto per l’Arabia Saudita e i paesi arabi delle vicinanze.

Che bello che era il mondo una volta, quando c’erano solamente l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti che avevano il nucleare.

La situazione adesso è più complessa. Se si pensa, dal Nord Africa al Vicino, Medio Oriente e Asia Meridionale, vi è tutta una zona dove c’è una forte competizione tra diversi attori regionali (Iran, Arabia Saudita, Turchia, Israele, Egitto, India, Pakistan n.d.r.), ma anche globali (Stati Uniti, Cina).

C’è questo competitore nuovo che è la Cina, anche a livello militare non solo dal punto di vista economico. Quindi questo neoconservatorismo si è sviluppato soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. Noi eravamo a quell’epoca tutti contenti, vedevamo queste persone che saltavano sul muro che divideva Berlino. Ci sono anche dei film come “Goodbye Lenin” che ci spiegano tante dinamiche di come si vivevano le cose dall’altra parte. Noi ne sapevamo poco, loro non sapevano nulla di quello che succedeva a noi. Il neorevisionismo israeliano e il neoconservatorismo americano nascono quando crolla il muro, cercando di capire chi deve avere la maggiore influenza.

In realtà no, sono nati alcuni decenni prima. Il neoconservatorismo nasce negli anni ’70, mentre il neorevisionismo si collega al sionismo revisionista di Jabotinsky che è addirittura degli anni ’20.

Jabotinsky che era nato a Odessa.

Sì, Jabotinsky era di Odessa e aveva come obiettivo un sionismo molto più radicale rispetto al sionismo originario di Herzl. Aveva una percezione di una costante lotta tra ebrei e arabi.

Militarista in pratica.

Sì, sempre una politica aggressiva. Il neorevisionismo è diverso dal revisionismo originario perché, come ricordo in “Progetti di egemonia”, esiste il fattore molto importante rappresentato dall’Olocausto. Questo evento storico ha segnato una sorta di spartiacque per la comunità ebraica dell’Europa orientale, ma in generale per gli ebrei e per il futuro Stato d’Israele. Il neorevisionismo è molto più radicale del revisionismo perché osserva una sorta d’incapacità da parte del resto del mondo di accettare l’esistenza dell’ebreo in quanto tale. E l’Olocausto ne è l’esemplificazione. C’è dunque un ideale fortemente pessimista nei confronti del resto del mondo.

Questo aspetto l’ho notato, leggendo il libro.

Un sentimento di pessimismo e avversione non solo verso gli arabi, ma anche verso chiunque critichi la politica estera dello Stato. In ogni caso il neorevisionismo individuava degli attacchi contro l’ebreo in quanto tale.

Quello che emerge a livello politico dal tuo libro è che una critica ad Israele è connessa all’attacco totale verso gli ebrei. Ma questo l’ho notato anche in certi programmi televisivi italiani, dove erano presenti dei giornalisti di origine ebraica che parlavano degli israeliani utilizzando il “noi”. Non si sentivano più cittadini italiani, ma quasi totalmente israeliani. Insomma il neorevisionismo interpreta totalmente questa separazione. E’ un aspetto molto interessante, anche per comprendere come opera. Il tutto è nato anche in questo caso negli anni ’70 che sono stati decisivi. Perché prima c’erano stati i laburisti per anni.

Sì, prima c’erano i laburisti al potere. Il 1977 è la data di svolta quando il Likud vinse le elezioni e inizia il programma vero e proprio del neorevisionismo, in un certo senso espansionista. Se si pensa alla guerra in Libano degli anni ’80, l’attacco preventivo nei confronti dell’Iraq del 1981 al reattore nucleare Osiraq. Quello che oggi il governo Netanyahu vorrebbe fare nei confronti dell’Iran, un attacco preventivo contro l’ipotetico programma nucleare iraniano è collegato a questo impianto ideologico connesso a un intento egemonico, una visione fortemente pessimista nei confronti degli altri e un’idea della continua presenza di una minaccia nei confronti d’Israele.

Tu hai spiegato molto bene come nasce questo movimento, soprattutto con i collegamenti con l’Olocausto. Il quale non è stato completamente accettato da una parte della popolazione europea. Si parla anche di revisionismo a proposito di questo e diventa spesso delicato discutere di questa tematica che hai citato.

In “Progetti di egemonia” considero l’utilizzo che viene fatto di questo genocidio, l’utilizzo politico. Non si discute l’evento storico, secondo me non si può discutere l’Olocausto.

Assolutamente.

Il problema è quando questo evento viene utilizzato per fini politici. Parlo alla fine di una sorta di banalizzazione: sia i neoconservatori sia i neorevisionisti parlano delle minacce contemporanee come se fossero una ripetizione dell’Olocausto, come le minacce degli anni ’30, equiparate al 1938; lo smembramento della Cecoslovacchia paragonato a un possibile smembramento d’Israele. Questo non è il modo corretto di fare storia. Ogni evento storico ha le sue circostanze e il suo particolare contesto.

Ti faccio una domanda a freddo. Quant’è paranoia e quanto calcolo politico?

Secondo me entrambi. Per un popolo che si sente minacciato è comprensibile una sorta di paura nei confronti dell’altro. Non bisogna dimenticare che esistono alcune frange all’interno dei paesi arabi che hanno come obiettivo la distruzione d’Israele. Dall’altra parte ci sono però anche calcoli politici. Secondo me esistono entrambi gli aspetti.

E anche economici. Dunque, in chiusura volevo considerare un altro aspetto. La tua ricerca si concentra molto sull’India e soprattutto su questioni geopolitiche riguardanti l’Asia Meridionale. Ci sono diversi articoli a questo proposito su internet. Tutto ciò come si collega a “Progetti di egemonia”? Cosa sta succedendo nel mondo e come spieghi tutti questi cambiamenti di potere, queste micro-rivoluzioni che isolate non vogliono dire quasi nulla? La popolazione si erge contro i propri governanti, ma in certi casi ciò fa comodo sia agli Stati Uniti che a Israele. Ma a livello globale cosa accade? Mi sembra che stiano cambiando i centri di potere ed è comprensibile questa paura.

C’è un impero che è in declino. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto l’idea di essere un impero a livello globale. Si sta spostando il centro di potere verso Oriente, soprattutto verso la Cina, in parte minore verso l’India che è comunque lontana dal livello raggiunto da Pechino.

La cosiddetta Cindia, come la chiamano.

Certo. La Cina e l’India non hanno ancora il potere militare che hanno gli Stati Uniti, però si sta registrando questo spostamento di potere dovuto soprattutto a motivi di carattere economico. In questa fase c’è una sorta di competizione molto forte a livello globale per chi saranno le guide e le superpotenze del futuro. Stiamo attraversando una fase in cui ci stiamo spostando da un modello unipolare a guida statunitense a un modello multipolare. Questo testimonia come le teorie della “fine della storia” d’inizio anni ’90 dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica siano totalmente sbagliate perché stiamo attraversando una fase in cui emergerà una nuova competizione per avere un ruolo egemonico a livello globale.

Si dice che i tedeschi hanno perso la Seconda guerra mondiale perché avevano problemi energetici. Per esempio l’ex Jugoslavia era il corridoio di collegamento con la Romania per il petrolio. Nessuno lo ha mai considerato. I tedeschi hanno studiato diversi tipi di approvigionamento energetico alternativi già durante il periodo della Seconda guerra mondiale perché avevano problemi energetici. Quanto conterà nel futuro questa lotta per l’energia e dove si sposteranno questi equilibri?

Le lotte per l’energia saranno molto forti, ad esempio anche il caso iraniano è collegato alla competizione per il controllo dei corridoi energetici, per il petrolio e il gas naturale. Se si pensa anche all’Afghanistan e al Pakistan, si può affermare che saranno due territori attraversati da una competizione molto forte per il controllo delle rotte energetiche. L’Afghanistan e il Pakistan sono due paesi che si trovano in territori molto importanti dal punto di vista geostrategico perché sono punti di collegamento tra le risorse presenti in Asia Centrale e l’Asia Meridionale, verso l’India. Oppure verso il Vicino Oriente. Dunque si possono fornire tanti esempi di questa continua competizione, in ogni caso penso che lotta sarà soprattutto per l’area che va dal Nord Africa al Vicino Oriente fino all’Asia Centrale e Meridionale. Un ipotetico conflitto ad esempio contro l’Iran potrebbe scatenare a livello regionale un’instabilità che è già forte, ma potrebbero esserci delle problematiche ancora più significative.

Dunque ricordo che lo stesso Francesco Brunello Zanitti, lo storico che abbiamo ospitato, ha anche un blog.

Sì, un sito da dove è possibile ordinare anche il libro, http://progettiegemonia.blogspot.com/.

“Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto” di Francesco Brunello Zanitti. Abbiamo parlato di geopolitica. Volevi aggiungere altro?

Sì, vorrei ricordare che l’Isag ha pubblicato altri due interessanti volumi per comprendere la geopolitica contemporanea. “Capire le rivolte arabe” del segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia” Daniele Scalea e del ricercatore, sempre dell’IsAG, Pietro Longo. Questo è uno studio molto importante per comprendere appunto le contemporanee rivolte arabe e avere un chiaro quadro della situazione. Un altro libro appena uscito è “Il risveglio del drago” del ricercatore e saggista Diego Angelo Bertozzi e del giornalista Andrea Fais, un libro molto importante per comprendere l’ascesa politica e militare della Cina.

Ci sono dunque altre questioni da approfondire per capire cosa sta succedendo nel mondo. E’ tutto collegato. L’Isag è un istituto di studi geopolitici di Roma con una schiera di ricercatori e anche tu collabori con “Eurasia” e si possono trovare diversi articoli sul web. E’ curioso che su Internet ci siano due persone con lo stesso nome: uno storico e un dentista. Grazie a Francesco Brunello Zanitti, avremo altre occasioni per ospitarti nuovamente.

Grazie a “Radio Onde Furlane” e a Mauro Missana per l’ospitalità.

Trinitapoli: La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe

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Si è svolta a Trinitapoli (BAT) sabato 19 novembre 2011 alle ore 19.30, presso il Palazzo Piscitelli, la conferenza “La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe”, tenuta dal presidente dell’IsAG Tiberio Graziani su invito dia Maria Antonietta Piscitelli.
Di seguito la cronaca dell’evento comparsa su “Stampa Sud

 
Tiberio Graziani e Maria Antonietta PiscitelliSTRAORDINARIO SUCCESSO DEL SEMINARIO DI GEOPOLITICA da “Stampa Sud”

Oltre novanta persone tra accademici, imprenditori, professionisti, giornalisti e studenti universitari, sabato scorso hanno preso parte al convegno di geopolitica intitolato “La prospettiva Eurasiatica. Le rivolte arabe”, presentato dal Prof. Tiberio Graziani direttore di “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” e presidente dell’“IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie”. L’evento, che ha avuto luogo in un palazzo antico di Trinitapoli, su invito della padrona di casa Maria Antonietta Piscitelli, organizzatrice del seminario, nonché giornalista ed esperta di cerimoniale e protocollo nazionale e internazionale, ha riscosso particolare successo sia per lo spessore e l’attualità dei contenuti sia per l’atmosfera di convivialità che hanno favorito il dibattito tra relatore e partecipanti. Tiberio Graziani, è relatore abituale ai convegni internazionali del Forum Pubblico Mondiale – Dialogo di Civiltà (WPF – Dialogue of Civilizations). Ha insegnato per anni nelle università di Perugia e l’Aquila. Ha tenuto corsi per l’ICE (Istituto per il Commercio Estero) in varie nazioni, tra cui Uzbekistan, Cina, India, Libia, Argentina. Dopo un breve intervento di saluto ai partecipanti della dott.ssa Piscitelli, il presidente Graziani ha inquadrato geopoliticamente i recenti fenomeni di rivolta e di conflitti in Nord Africa e Vicino e Medio Oriente – quell’area che gli Statunitensi hanno ribattezzato “Grande Medio Oriente”. Si tratta, secondo Graziani, di una fascia frammentata e vulnerabile attraverso cui la potenza, principalmente aero-marittima, degli USA cerca di penetrare in Il pubblico in salaprofondità nel continente eurasiatico. Alla luce di questo prisma geopolitico, si sono analizzati i casi specifici della Libia, della Tunisia, dell’Egitto, della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. Il seminario si è concluso con piena soddisfazione dei presenti, con una cena a buffet, ricca di sapori e colori invitanti, offerta dall’organizzatrice dell’evento. I selezionatissimi partecipanti, prima del commiato si sono congratulati con Tiberio Graziani per l’importanza dei temi trattati, e con la padrona di casa Maria Antonietta Piscitelli per aver saputo coniugare cultura e gastronomia, in un ambiente privato, elegantemente curato, che non aveva nulla da invidiare alle sedi istituzionali dove di prassi hanno luogo eventi di tale spessore intellettuale.

All’Università di Enna: Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo (I semestre)

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Si è svolto a Enna presso la locale università, nel mese di novembre 2011, la prima parte del ciclo seminariale Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo.

Le prime cinque lezioni del ciclo hanno riguardato:

La prospettiva eurasiatica e il Mediterraneo (docente: Tiberio Graziani, data: 7 novembre),

La cerniera mediterraneo-centrasiatica (docente: Tiberio Graziani, data: 8 novembre),

La guerra di Libia e il diritto internazionale (docente: Paolo Bargiacchi, data: 9 novembre),

Introduzione al diritto islamico e dei paesi musulmani (docente: Pietro Longo, data: 16 novembre),

L’emergenza Lampedusa tra diritto e politica europea (docente: Paolo Bargiacchi, data: 23 novembre).

Il ciclo seminariale è organizzato dalla Cattedra di Diritto Internazionale della Facoltà di Scienze economiche e giuridiche dell’Università “Kore” di Enna e dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Clicca qui per la brochure di presentazione (in pdf)

La crisi del debito italiano: D. Scalea a Radio Italia IRIB

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia dell’IRIB a proposito della crisi del debito italiano. L’articolo originale si può leggere cliccando qui. Di seguito la registrazione audio e la trascrizione.

 

Il presidente Giorgio Napolitano ha dato l’incarico di formare il nuovo governo al signor Mario Monti. Secondo molti analisti indipendenti italiani, Monti sarebbe l’uomo di fiducia della BCE imposto all’Italia. Qual è il suo parere in merito?

Questa è l’opinione non solo di commentatori italiani, ma anche di molti stranieri, ed è un’opinione che personalmente condivido. Quello che è successo in Italia è accaduto, esattamente negli stessi giorni, anche in Grecia. Un problema legato al debito nazionale rischiava di travolgere altre nazioni, anche grandi potenze come Francia e Germania, esposte tramite le loro banche al debito italiano e greco. Nazioni più forti, con maggiori leve politico-finanziarie, sono riuscite a commissariare i paesi minori, l’Italia e la Grecia: hanno imposto governi cosiddetti “tecnici”, la cui agenda – al di là dei proclami ufficiali – è chiara, e consiste nel garantire la solvibilità del debito pubblico. Garantire, dunque il trasferimento di ricchezza dall’Italia e dalla Grecia verso i creditori: banche interne a questi due paesi (anche moltissimi piccoli risparmiatori possiedono buoni del Tesoro in Italia, ma guardando all’aggregato del debito pubblico la quota da loro detenuta rappresenta una percentuale piuttosto bassa), ma soprattutto creditori esteri. Dunque, ricapitolando: questi governi “tecnici” devono garantire il trasferimento all’estero di ricchezze, non provenienti dalle casse pubbliche, che ormai sono vuote, ma dalla società, dai privati, i cui risparmi sono prelevati tramite tassazione e conservati per il fine ultimo (il pagamento del debito) tagliando i servizi sociali.

Alcuni leggono gli ultimi cambiamenti a livello di governo come una “offensiva esterna” contro l’Italia. Cosa ne pensa?

Come accennavo l’Italia, pur essendo fortemente indebitata a livello pubblico (statale), in realtà ha un bassissimo debito privato. Se si guardasse al debito aggregato (privato più pubblico) si noterebbe che in Europa, tra i grandi paesi, solo la Germania è messa meglio dell’Italia. L’Italia possiede un grande bacino di risparmi privati che, in una fase di crisi mondiale di liquidità, fanno gola a molti. Si è perciò usato il debito pubblico come grimaldello per accedere a queste riserve finanziarie, detenute dalle famiglie italiane, che saranno immesse nel sistema bancario internazionale (anche italiano, quindi, ma principalmente straniero). L’Italia, si può dire, è rimasta vittima della sua debolezza politica: la sua forza finanziaria privata sarà saccheggiata, impoverita, sfruttando la fragilità e la ricattabilità dello Stato.

Alcuni puntano il dito contro il legame di Monti con la banca Goldman Sachs. Perché?

Perché c’è un evidente caso di conflitto d’interessi. In Italia siamo abituati a convivere col conflitto d’interessi, uno dei temi predominanti a livello politico nel periodo di Berlusconi, dunque negli ultimi vent’anni circa. Il problema si ripropone, anche se per il momento è meno pubblicizzato. Abbiamo il nostro nuovo presidente del Consiglio Monti che è advisor di Goldman Sachs. Secondo il quotidiano “Milano Finanza”, ci sarebbero forti sospetti che la speculazione degli ultimi giorni, che ha fatto schizzare in alto lo spread BTP-Bund portando alla caduta del governo Berlusconi, sarebbe stata alimentata proprio da Goldman Sachs. Referente di Monti alla BCE è un altro ex alto dirigente di Goldman Sachs, Mario Draghi: secondo quanto scritto dal quotidiano “Libero”, in quegli stessi ultimi giorni di governo Berlusconi Draghi avrebbe tagliato gli acquisti di BTP da parte della BCE, lasciando lo spread alzarsi fuori controllo. Questo caso di conflitto d’interessi e di manovre poco chiare meriterebbe senz’altro d’essere approfondito, per capire se ci sia stata una collusione finalizzata a forzare il cambiamento di governo in Italia, e se in futuro saranno fatti dei favori a questo istituto finanziario, o se i governanti saranno integerrimi ed ignoreranno il loro legame personale con Goldman Sachs.

Secondo lei cosa dovrebbero ancora aspettarsi i cittadini italiani?

L’essenza dell’agenda politica, al di là di ciò che viene proclamato pubblicamente, credo sia quella che ho più o meno già descritto: garantire la solvibilità dell’Italia tramite un massiccio trasferimento di ricchezza dai risparmiatori al sistema bancario internazionale, passando per lo Stato indebitato, inasprendo la pressione fiscale e tagliando i servizi a famiglie ed imprese. Ciò, evidentemente, avrà delle conseguenze sull’economia italiana. Misure deflattive, di rigore fiscale – diciamo pure depressive – in una fase di crisi economica internazionale non faranno che acuire la tendenza negativa. Se, come sembra, si diminuiranno i salari, si alzerà l’IVA e s’inasprirà la pressione fiscale, i consumi scenderanno. E’ vero che l’Italia è orientata principalmente verso l’esportazione, e bisognerà vedere se il taglio dei costi di produzione tramite la diminuzione dei salari, dando una spinta alle vendite all’estero, riuscirà a compensare il calo delle vendite all’interno. Ma anche se ciò avvenisse, lo si sarebbe ottenuto a spese del tenore di vita di gran parte della popolazione italiana. Nello scenario peggiore avremo una stagnazione o peggio recessione economica. La Grecia, che prima di noi si è trovata avviluppata dalla crisi del debito ed ha adottato la ricetta del rigore imposta dall’UE e dalla BCE, già da alcuni anni è in pesante recessione. Il rischio è dunque che l’indebitamento statale si ripercuota sull’economia reale italiana, devitalizzandola e rigettandola nella stagnazione/recessione da cui stava faticosamente uscendo.

L’IsAG all’VIII Forum di Dialogo Italo-Turco a Istanbul

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Si è tenuta a Istanbul, il 24 e 25 novembre, l’ottava edizione del Forum di Dialogo Italo-Turco, presso l’Hotel Hilton.
Hanno partecipato, come membri della delegazione italiana guidata dal ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, anche i rappresentanti dell’IsAG Aldo Braccio, Pietro Longo e Daniele Scalea.
L’organizzazione è stata a cura del SAM e di Unicredit, con l’alto patrocinio dei ministeri degli Affari Esteri di Italia e Turchia.
DI seguito, il testo dell’intervento pronunciato da Aldo Braccio durante la tavola rotonda a porte chiuse, che ha visto confrontarsi le delegazioni d’esperti italiani e turchi sul problema dell’ingresso nell’UE della Turchia.

 
L’INTERVENTO di Aldo Braccio

Grazie, Presidente.

Indubbiamente rafforzare le relazioni fra Italia e Turchia – fra governi ed enti locali, fra corpi intermedi e anche fra operatori economici – rappresenta anche un positivo passaggio nel miglioramento dei rapporti fra Europa e Turchia.

Queste relazioni devono necessariamente tener conto di uno scenario internazionale che sta cambiando anche al di là delle “primavere arabe”, fenomeno questo che è ancora abbastanza incerto nei suoi esiti e nel suo significato. Assistiamo infatti al tramonto progressivo ma inesorabile di un sistema mondiale unipolare a guida statunitense, cui va sostituendosi un mondo multipolare più aperto ed equilibrato, basato su grandi aggregazioni di forze di carattere regionale o continentale.

Aldo Braccio (a sx) e Pietro Longo (a dx) prima dell'apertura del ForumIn questo senso il sistema economico e concettuale, culturale, della globalizzazione è entrato in crisi e mostra tutti i suoi limiti : una crisi che sta attraversando – come tutti possono constatare – i Paesi del cosiddetto Occidente e sta minacciando di spingere nel baratro anche altre parti del mondo, distruggendo l’economia produttiva a solo beneficio di una finanza incontrollata e speculatrice.

D’altra parte, come giustamente osserva il ministro degli Esteri Davutoğlu in Stratejik Derinlik : Tűrkiye’nin Uluslararası Konumu, il superamento dei parametri della Guerra Fredda implica la reinterpretazione del proprio ruolo geopolitico – e questo vale per la Turchia quanto per l’Italia. Un ruolo geopolitico e quindi – sottolineo – politico – di riconquista di una dimensione decisionale e non di contorno della politica nei confronti dell’economia.

E’ ben vero che l’enorme rilievo dell’interscambio commerciale con quasi tutti i Paesi limitrofi, a cominciare dall’Iran, e il fatto che Russia e Cina siano in assoluto il secondo e il terzo partner commerciale traducono anche in termini economici le nuove proiezioni geopolitiche della Turchia; l’Italia, quarto partner commerciale in assoluto del Paese della Mezzaluna, potrà indirettamente giovarsi di tale “apertura al mondo” della Turchia, se saprà acquisire una visione lungimirante delle relazioni internazionali, non fondata su pregiudizi ideologici e non sbilanciata aprioristicamente in senso transatlantico, ma invece più attenta all’area mediterranea e a quella del Vicino Oriente, e in generale ai nuovi attori emergenti nello scenario mondiale.

Grazie per l’attenzione.

Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism

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Si è tenuta a Parigi, i giorni 24 e 25 novembre, presso il Radisson Blu Ambassador Hotel la conferenza internazionale Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism.
Tra i relatori presente anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”, il quale ha preso parte alla terza sessione, svoltasi dalle 17 alle 19 del 24 novembre sul tema “Part mass media plays in international relations and the effect it has on them“.
L’organizzazione è stata a cura del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa e dell’Agenzia Federale delle Comunicazioni russa, in collaborazione con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, IFIMES e “The 4th Media”.
Di seguito il testo dell’intervento di Tiberio Graziani.

 
L’INTERVENTO di Tiberio Graziani

Come è universalmente accettato i mezzi di comunicazione di massa costituiscono un importante strumento per lo scambio di informazioni tra persone, industrie, nazioni, ai fini del raggiungimento di alcuni rilevanti obiettivi, tra cui soprattutto la conoscenza reciproca relativamente agli ambiti culturale, economico, politico, sociale e la formazione della cosiddetta opinione pubblica.

A dx: Tiberio GrazianiD’altra parte, dobbiamo anche riconoscere l’intrusione dei mezzi di comunicazione di massa nella vita quotidiana degli individui per quanto riguarda gli ambiti sopra citati. Il principale effetto della pervasività dei mezzi di comunicazione può essere valutata col cambiamento del comportante sociale avvenuto negli ultimi sessanta anni nelle Nazioni europee, specialmente in quelle caratterizzate dalla cultura cattolica.

Oggi, possiamo affermare che, rispetto al comportamento sociale, ci troviamo di fronte non più a un Paradigma culturale europeo, bensì di fronte a un generico modello “ occidentale” (o per meglio dire occidentalizzato), modulato sui valori statunitensi.

Lo spostamento da una paradigma culturale europeo ad uno occidentale dipende, fra l’altro, da precise cause geopolitiche.

Tiberio Graziani pronuncia il suo interventoDallo specifico punto di vista geopolitico, l’Europa, cioè la penisola eurasiatica che chiamiamo Europa, costituisce – a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale -, la periferia del sistema occidentale guidato dagli Stati Uniti. Mentre dal punto di vista geostrategico, a causa dell’Alleanza egemonica NATO, essa costituisce la testa di ponte atlantica gettata sulla massa eurasiatica.

Riferendoci all’argomento di questa sessione, cioè al ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa nell’ambito delle “Relazioni internazionali”, e adottando l’analisi geopolitica, possiamo facilmente osservare che i mezzi di comunicazione sono generalmente “piegati” o strumentalizzati ai fini delle prassi geopolitiche dei principali attori globali. Ad esempio, i mezzi di comunicazione di massa “occidentali” – vale a dire i mezzi di comunicazione del sistema geopolitico guidato dagli USA – contribuisce alla “esportazione” del modello e dei valori occidentali (quali la particolare interpretazione della democrazia, la prospettiva neoliberale, la neoreligione dei cosiddetti diritti umani, etc. etc.), senza alcuna considerazione riguardo alle altre culture (asiatiche, africane, ed europee, etc.).

In primo piano: Tiberio GrazianiSotto questo particolare aspetto, i mezzi di comunicazione costituiscono un particolare e decisivo elemento delle prassi relative al soft power elaborate dagli attori geopolitici.

La relazione tra Informazione – Potere e Finalità geopolitiche è dunque molto stretta.

I Mass Media hanno pertanto una grande responsabilità. Essi possono concorrere alla comprensione reciproca tra le nazioni e i popoli, ma anche a distruggerne l’amicizia.

La relazione tra la Russia e i Paesi dell’UE ha bisogno di essere consolidata. Il problema principale che potrebbe ostacolare l’importante e geopoliticamente naturale processo di consolidamento, con rilevante beneficio delle popolazioni che vivono nella massa continentale eurasiatica, è costituito dal ruolo svolto dagli USA in Europa e dalle politiche transatlantiche di Bruxelles.

In primo piano: Tiberio GrazianiUn giusto uso dei Mezzi di comunicazione può concorrere al miglioramento delle relazioni tra l’Europa e la Russia con mutuo beneficio.

Generalmente, l’informazione sulla Russia, diffusa dai Mass Media europei, fornisce una rappresentazione “non realistica” della vita politica e delle giuste aspettative della Federazione. In particolare, l’informazione europea sugli aspetti politici della Russia sembra essere ideologicamente orientata. In altre parole, i mezzi di comunicazione dell’UE diffondono una interpretazione – e non una descrizione – delle questioni politiche russe, in accordo ai valori occidentali ed agli interessi transatlantici. La conseguenza di tale marcata interpretazione pro-occidentale si riflette nella formazione e nell’orientamento della “pubblica opinione europea”, rendendola particolarmente diffidente verso la Russia; tale comportamento ci mostra che i mezzi di comunicazione europei svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito della soft power strategy adottata dal sistema occidentale guidato dagli USA.

Al fine di fornire all’opinione pubblica europea una descrizione più realistica della Russia, occorre migliorare lo scambio di informazioni adottando alcuni criteri comuni.

In primo piano: Tiberio GrazianiÈ desiderabile una minore dipendenza dei mass Media europei dagli interessi statunitensi. I mezzi di comunicazione europei dovrebbero favorire, con senso critico, le relazioni tra i popoli che abitano la parte occidentale dell’Eurasia (cioè l’Europa) e il popolo russo.

I mezzi di comunicazione di massa giocheranno un ruolo sempre più importante e crescente nella costituzione del nuovo ordine multipolare.

L’Europa, nel suo insieme, dovrebbe decidere, nel breve tempo, il proprio futuro geopolitico: essere la periferia del sistema occidentale o diventare un attore nel quadro dello scenario multipolare. L’Europa potrebbe superare l’attuale crisi finanziaria ed economica consolidando le relazioni (politiche, economiche, infrastrutturali e sociali) con la Russia, l’India e la Cina, le più importanti nazioni eurasiatiche. In tale contesto i mezzi di comunicazione europei possono svolgere una funzione determinante.

Dopo la “Primavera”: dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali (Fontenuova)

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Sabato 26 novembre 2011, alle ore 16, si è tenuta a Fontenuova (RM), presso la Biblioteca Provinciale di Via Machiavelli, la conferenza Dopo la “Primavera”. Dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali.
Sono intervenuti come relatori: Giacomo Guarini (ricercatore presso l’IsAG), che parlerà di “Medio e Vicino Oriente dopo le rivolte”, e Fabrizio Di Ernesto (giornalista dell’ASI e saggista), che tratterà de “Il caso libico”.
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione Millennium, in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e Fuoco Edizioni.
Di seguito il testo dell’intervento di Giacomo Guarini.

 
L’INTERVENTO di Giacomo Guarini

Buonasera a tutti,

ringrazio anzitutto gli organizzatori per avermi dato possibilità di essere qui con voi a discutere della tematica proposta: lo sviluppo delle cosiddette Primavere arabe e i nuovi assetti globali che ne derivano.

Proverò a dividere la mia esposizione in tre parti:

    - una panoramica descrittiva delle rivolte nell’area mediterranea, che è quella che ha goduto di grande attenzione mediatica in ‘Occidente’ con i rivolgimenti in Tunisia ed Egitto prima, i disordini libici cui ha fatto seguito il ben noto intervento militare esterno nel paese, la crisi siriana che va evolvendosi in forme sempre più acute;

    - cenni a quelle ‘Primavere’ quasi del tutto ignorate dalle nostre parti, che hanno coinvolto i paesi della penisola araba;

    - cenni ai nuovi possibili assetti regionali e globali, anche alla luce dell’atteggiamento che le grandi potenze vanno assumendo nell’area.

Una prima precisazione: la decisione di trattare separatamente i rivolgimenti in corso nell’area mediterranea e nella penisola araba non scaturisce da mero criterio geografico ma nasce da più profonde implicazioni. Di fatto, le rivolte dell’area mediterranea sono state oggetto di grande attenzione mediatica e incisive risposte politiche; i rivolgimenti della penisola non hanno invece avuto pressoché alcuna eco significativa né sul piano mediatico né sul piano politico internazionale.

“Primavere” mediterranee

Comincio dunque con alcuni cenni agli sviluppi delle rivolte nei paesi mediterranei, trattando di Tunisia, Egitto e Siria (il caso libico sarà di specifica pertinenza del correlatore Di Ernesto).

Tunisia: è stato il primo paese nel quale il malcontento popolare è esploso in forme incontenibili. Estesosi dall’entroterra verso la capitale costiera Tunisi, renderà vane le violente repressioni di Ben Alì, presidente del paese dal 1987, che sarà infine costretto alla fuga in Arabia Saudita. Alla sua dipartita seguiranno ancora scontri di piazza a più riprese, dovuti soprattutto all’insofferenza del popolo per governi provvisori caratterizzati ancora da una forte presenza di membri del vecchio establishment. Nuove elezioni avranno luogo il 23 Ottobre, inizialmente previste per la fine di Luglio.
L’esito elettorale porterà ad una vittoria quasi scontata del partito definito “islamico-moderato” Ennahda che conquisterà 90 seggi su 217 con circa il 41% delle preferenze espresse. Rachid Gannouchi è il leader della forza politica uscita vincitrice dalla competizione.

Il paese all’indomani delle competizioni elettorali: Gannouchi sembrerebbe al momento assumere funzione equilibratrice fra le istanze più radicalmente islamiste e quelle più laiche del paese. Da un lato ha riconosciuto legittimità politica alla formazione islamista radicale Ettahir, la cui partecipazione alla competizione elettorale era stata esclusa dal governo di transizione. D’altro canto, l’assetto istituzionale si è consolidato sulla base del legame con partiti di estrazione laica quali l’Ettakatol e il Congresso per la Repubblica (in merito alla designazione rispettivamente del presidente dell’Assemblea costituente e del Capo dello Stato ad interim) e di rilievo è stato l’ammiccare al modello turco ed alla figura di Erdoğan, la cui formazione politica richiama chiaramente le radici islamiche ma ripudia quello che definiremmo “fondamentalismo”. Indicativo della volontà di Gannouchi di emergere come leader moderato dalla competizione è stato anche l’aver posto l’accento sulla grande partecipazione politica femminile nelle stesse file di Ennhada, nonché il ripudio di provvedimenti proibizionisti nella vita civile ispirati a ragioni confessionali.

Egitto: l’11 Febbraio Mubarak, dopo aver tentato alcune riforme cosmetiche in seno all’establishment, si vedrà costretto a lasciare il potere in seguito ad indomabili proteste, nonostante – anche qui – l’intervento di forze di repressione governative e para-governative. Il potere è delegato provvisoriamente al Consiglio supremo delle forze armate. Attualmente, anche a seguito dell’approvazione di modifiche costituzionali, l’art. 56 della costituzione provvisoria prevede la prerogativa eccezionale per le stesse forze armate di adottare atti normativi. E possiamo dire che proprio il potere del Consiglio militare rappresenta ancora oggi un forte fattore di impedimento alla pacificazione sociale (non l’unico, per la verità, considerando i casi di violenza inter-religiosa che continuano a manifestarsi nel paese) dal momento che Piazza Tahrir al Cairo, assurta a simbolo della mobilitazione popolare contro Mubarak, ha continuato anche dopo la caduta dello stesso ad essere popolata in segno di protesta e proprio in questi giorni assistiamo a manifestazioni ‘oceaniche’ come quelle di Febbraio. Elezioni non hanno ancora avuto luogo (il primo turno si svolgerà il 28 Novembre), ma il fermento socio-politico di questi mesi non ha fatto che dimostrare la grande forza di cui gode un movimento come quello dei Fratelli Musulmani, confermata anche dalla capacità di mobilitazione nelle proteste di cui abbiamo fatto cenno. Dovrà dunque passare del tempo, prima di poter assistere ad una più chiara ridefinizione dei rapporti di forza fra i soggetti politico-sociali provenienti “dal basso” (presso i quali, le componenti islamiste assumono grande peso) e “dall’alto” (il Consiglio militare, la cui presenza nelle istituzioni è ancora forte).

I rivolgimenti in Egitto e Tunisia, elementi comuni di riflessione:

    - Abbiamo assistito alla caduta di regimi pluridecennali, autocratici, ‘laici’, appoggiati dall’ ‘Occidente’.

    - In entrambi i paesi forti spinte alla rivolta sono nate da malcontento sociale. Disoccupazione, aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (fenomeno per il quale si è diffusamente denunciata l’influenza delle speculazioni finanziarie), cleptocrazia sono stati tutti elementi che hanno giocato un importante ruolo come scintilla dei fenomeni di destabilizzazione.

    - La caduta dei regimi ha lasciato il posto ad un fermento politico dalle forti connotazioni religiose, già carsicamente radicato nel tessuto sociale. Un elemento – la componente islamista – che pure se in forme diverse ritroveremo anche nella crisi siriana di cui andremo a parlare e in quella libica di cui dirà Di Ernesto.

    - Si è detto come i governi di Ben Alì e Mubarak godessero di solidi rapporti con i paesi occidentali, per quanto le stesse relazioni fossero soggette ad alti e bassi. Tuttavia non può tacersi il ruolo che ha giocato nelle rivolte un fattore controverso quale la presenza di attivisti ed ong caratterizzati da legami diretti o indiretti con l’ ‘Occidente’ e con gli USA in particolare. Si pensi a quelle rivelazioni di Wikileaks diffuse nei giorni dell’infiammare delle proteste egiziane, le quali facevano riferimento a legami fra diplomazia USA e attivisti egiziani volti a favorire un regime change nel paese. Vi sarebbe molto altro da dire su questi legami, per alleggerire la trattazione preferisco farlo per immagini più che per parole:

Egiziani dissidenti accolti a Washington presso la Freedom House (2008)

Attivisti per i diritti umani egiziani accolti presso il Dipartimento di Stato (2009)

Simbolo di Otpor, organizzazione serba per i diritti civili, sostenuta e finanziata da Freedom House il cui ruolo è stato determinante nella caduta del presidente Milosevic

Nelle proteste egiziane, il movimento 6 Aprile fa largo uso di simboli che richiamano Otpor; esponenti dell’organiz- zazione stessa e fonti giornalistiche hanno fatto riferimento agli intensi legami fra le due organizzazioni

I legami diretti o indiretti fra movimenti ed ong di protesta e governo USA sembrano dunque rispettare la strategia delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, applicata in particolare nei Balcani, nell’Est Europa ed in Centro Asia e consistente nel promuovere cambi di regime favorevoli a Washington proprio mediante il massiccio finanziamento di gruppi e movimenti locali finalizzati al sovvertimento non-violento di governi autocratici o presunti tali. Certamente vi è nel contesto ‘egizio-tunisino’ una grande anomalia, data dal fatto che qui non si è agito contro governi ostili agli USA, tutt’altro. Tenteremo in conclusione di accennare ai possibili motivi di simili scelte strategiche.

Siria: rappresenta sicuramente lo scenario più delicato al momento nell’area mediterranea, suscettibile di brusche e sconvolgenti evoluzioni nel breve periodo. Si è cominciato a parlare di Siria in relazione alle rivolte arabe nel mese di Marzo, con i primi disordini di Deraa. Per lungo tempo i principali media panarabi (Al-Jazeera e Al-Arabiya) ed occidentali hanno esclusivamente trattato delle violente repressioni governative, spesso in verità anche riportando notizie e testimonianze audiovisive di dubbia – quando non nulla – attendibilità. Con questo non si vuole negare la violenza delle repressioni governative, soprattutto in particolari frangenti, ma si vuole mettere in luce un aspetto della crisi parecchio trascurato dai media nel corso dei mesi e solo ora parzialmente emerso. A fare da contraltare alle notizie di violenze arbitrarie su pacifici manifestanti, infatti, vi è la versione del governo siriano, che ha denunciato sin dall’inizio un “complotto dall’estero” e l’azione di terroristi autori di attentati contro i militari e contro i civili. Diverse testimonianze audiovisive sono state riportate al riguardo dalle tv di Stato. Negli ultimi giorni, invece sta acquisendo certa visibilità l’ “Esercito Siriano Libero”, che ha rivendicato diversi attentati a luoghi di rilevanza politica e militare. Per simili fatti, dunque, anche la stampa occidentale è giunta infine a fare riferimento esplicito alla realtà di una guerra civile nel paese. Da rilevare anche che il governo ha proposto e promulgato diversi provvedimenti di riforma sin dall’inizio della crisi (apertura del web, riforme istituzionali finalizzate al pluripartitismo, amnistia per gli autori di disordini, fine dello stato di emergenza in vigore da decenni, etc.) ma questi non sono mai stati posti alla base di un dialogo fra le parti, a causa del rifiuto pregiudiziale dei ‘ribelli’ che hanno presto alzato la posta, chiedendo non più determinate riforme, ma un immediato ed incondizionato regime change. Ultimo elemento che vorrei mettere in luce è il sostanziale sostegno di cui Assad sembra di fatto godere presso larghe fasce della popolazione e – elemento degno di nota – presso le minoranze religiose, fra cui quella cristiana. Il timore espresso da diversi esponenti di quest’ultima è che l’attuale pace confessionale e rispetto religioso garantiti politicamente, verrebbero meno a causa del forte radicamento islamista degli oppositori governativi.

La crisi siriana nel contesto internazionale: la crisi in corso vede il governo in serie difficoltà e semi-isolato internazionalmente. Con accuse basate su una condotta repressiva del governo contro le istanze del popolo, le prime dure critiche sono arrivate dall’ ‘Occidente’. La Turchia – negli ultimi tempi impegnata in un riavvicinamento a Damasco, sancito da importanti forme di cooperazione strategica – ha avuto negli ultimi mesi un atteggiamento di crescente ostilità, sfociato nella minaccia di intervento ‘umanitario’ degli scorsi giorni, per di più accolta favorevolmente da esponenti dei Fratelli Musulmani siriani, anche qui in opposizione al governo costituito. Abbiamo poi la Lega Araba, che si è visto aver agito politicamente contro la Siria con la sospensione della membership nell’organizzazione ed elaborando sanzioni da applicare. A difendere il governo di Assad resta la Russia, per la quale la Siria ha una funzione strategica troppo importante come sbocco sempre ricercato nei “mari caldi”, dal momento che le è garantito l’accesso al porto di Tartus. Anche la Cina avrebbe interesse a difendere il paese da un eventuale intervento ‘umanitario’, soprattutto dopo che la risoluzione ONU 1973 per la Libia è stata interpretata a puro arbitrio delle forze intervenute. Per ora però le sue reazioni sono parse abbastanza tiepide. L’Iran resta infine uno strenuo difensore della Siria, trovando in essa un alleato vitale, un punto di riferimento fondamentale nella regione, come lo è d’altronde anche per la milizia islamico-sciita libanese di Hezbollah, nonché come elemento di raccordo fra quest’ultima e lo stesso Iran.

Le ‘Primavere’ ignorate: la penisola araba

Anche la penisola araba è stato centro di disordini di non indifferente portata, eppure questi sono stati sistematicamente ignorati dai nostri media, a parte forse certi riferimenti allo Yemen. In Arabia Saudita vi sono state tensioni soprattutto nella parte orientale del paese, a maggioranza sciita (della stessa confessione religiosa dell’Iran, a differenza dell’establishment saudita radicato nella tradizione del sunnismo wahabita) e particolarmente tesa è stata ed è la situazione in Bahrein; è noto a chi ha seguito con più attenzione i fenomeni in corso nel mondo arabo che il governo saudita è intervenuto con carri armati nella piccola isola per facilitare la repressione delle proteste pacifiche di civili disarmati. Da rilevare che in questi due scenari la rivolta coinvolge sostanzialmente la popolazione di confessione sciita in paesi dove l’assetto istituzionale è di forte ispirazione sunnita e l’orientamento confessionale si riflette anche nella vita civile e sociale, causando forti discriminazioni. La Repubblica Islamica dell’Iran ha fortemente simpatizzato con simili proteste, per comunanza confessionale, ma anche perché si tratta di spine nel fianco del regime saudita e dei suoi alleati, con i quali l’Iran è in competizione per l’egemonia regionale.

‘Occidente’ e monarchie del Golfo: un progetto strategico comune? Perché, tuttavia, queste proteste non hanno avuto la stessa risonanza ed impatto di quelle ‘mediterranee’ precedentemente trattate? Proviamo a rispondere. Le cosiddetta petro-monarchie del Golfo costituiscono un fondamentale serbatoio energetico per l’ ‘occidente’, USA in primis e per questi ultimi vi è anche una valenza strategica fondamentale. Si pensi alle varie basi militari USA ivi dislocate (si parla di più di 40.000 truppe statunitensi presenti nel Golfo), le quali hanno anche una importante funzione di accerchiamento dell’Iran, nemico comune agli USA e ai paesi peninsulari. Insomma, simili esigenze di grande interesse strategico hanno evidentemente portato ad allontanare l’attenzione dalle rivolte in corso in questi scenari; tuttavia dobbiamo far riferimento anche ad altre esigenze strategiche di più immediata contingenza e –aggiungo – cruciali per comprendere l’evolvere dei sommovimenti in corso. Mi riferisco ad una sostanziale convergenza strategica – pur fra inevitabili divergenze di second’ordine – fra i più influenti paesi dell’area (Arabia Saudita e Qatar in primis) da un lato e gli USA (seguiti a ruota dagli altri paesi occidentali) dall’altro, nel promuovere la caduta dei governi costituiti nel Mediterraneo o quantomeno nel sostenere le forze politiche successivamente insediatesi. L’aiuto sostanziale di questi paesi arabi in tal senso si è avuto su più fronti:

    - Copertura mediatica: Al-Jazeera ed Al-Arabiya sono due emittenti rispettivamente facenti capo all’emiro del Qatar e alla famiglia dei Saud, al potere in Arabia Saudita (anche se la sede dell’emittente è negli E.A.U.). E’ noto ormai come simili emittenti abbiano letteralmente taciuto i pur rilevanti sommovimenti in corso nella penisola araba mentre abbiano intensamente sponsorizzato quelli nell’area mediterranea, arrivando spesso a storture – quando non a vere e proprie menzogne – per promuovere la caduta dei regimi mediterranei.

    - Sostegno finanziario: concretizzatosi in più forme, soprattutto da parte saudita e qatariota; si pensi all’impulso agli investimenti e ai prestiti al ‘nuovo’ Egitto e alla ‘nuova’ Libia. Ma meriterebbe una trattazione a parte la questione del sostegno agli stessi movimenti politico-religiosi sunniti operanti nell’area. Per inciso, si noti come massicci fondi siano stati invece stanziati per finalità inverse (garantire la sopravvivenza dei regimi politici al potere) nel Golfo ed in paesi alleati. L’Arabia Saudita, ad esempio, si è impegnata a stanziare una quantità enorme di denaro (130 miliardi di dollari, pari al 36% del suo pil) per promuovere riforme sociali interne e salvare sé stessa, ma anche ingenti risorse destinate ai governi amici destabilizzati dalle rivolte grazie al Consiglio di Cooperazione del Golfo.

    - Appoggio militare e para-militare: Qatar e E.A.U. hanno dato il loro sostegno all’operazione militare in Libia. In particolare il Qatar ha anche lavorato nelle operazioni più delicate, quale la dislocazione di truppe speciali a terra che ha permesso la presa di Tripoli. Riguardo alla destabilizzazione in corso in Siria, anche analisti occidentali – tutt’altro che sospetti di simpatie baathiste – ipotizzano il sostegno indiretto dei sauditi ai gruppi armati antigovernativi, contando sull’appoggio di Hariri dal Libano e sulle frontiere porose dell’Iraq, nonché sulla collaborazione dell’alleato giordano.

    Attività politica: la Lega Araba ha mostrato piena ostilità nei confronti di Gheddafi ed Assad mentre – ovviamente – nessun provvedimento di sanzione è stato preso nei confronti dei governi della penisola a causa delle repressioni attuate (in base ai rapporti di forza in seno alla Lega, la cosa avrebbe significato accusare sé stessi).

Conclusioni

Abbiamo visto come i sommovimenti nell’area mediterranea (Egitto, Tunisia, Libia e Siria) stiano vedendo come attori protagonisti in primo luogo forze islamiste (tendenti all’oltranzismo o a posizioni moderate a seconda dei luoghi); fra queste, i Fratelli Musulmani parrebbero rappresentare la forza più dirompente, che emerge in paesi ‘laici’ dove aveva sempre subìto forti forme di contenimento o effettiva repressione.

I paesi del Golfo hanno dato un sostanziale sostegno a simili fermenti, scommettendo sul forte ascendente politico che potranno avere sulle forze politiche emergenti ispirate all’islamismo sunnita. Hanno invece taciuto, contenuto e represso ogni forma di dissenso nella propria area di riferimento.

I paesi occidentali, USA in testa, hanno contribuito alla caduta di regimi pure ad essi legati (Tunisia, Egitto) e promosso parimenti un cambio politico di regimi ad essi ostili (Libia, Siria in corso).

La domanda che sorge spontanea è: perché l’egemone USA ha assecondato un generale stravolgimento degli assetti mediterranei, anche quando questo ha coinvolto governi tutto sommato affidabili e ad essi legati?

Diverse risposte possono provarsi a dare sulle finalità di tale scelta e possiamo individuare scopi strategici a valenza regionale e globale:

1. A livello regionale: l’appoggio alle “Primavere” ha portato alla caduta di regimi ‘fidati’, i quali però erano causa di forte malcontento presso la popolazione e di certa preoccupazione presso gli stessi USA (vedi i crescenti legami con la Cina). La loro caduta ha portato ad un rilancio d’immagine, con il quale gli USA hanno potuto presentarsi come sensibili alle istanze democratiche delle popolazioni; l’instabilità ivi creatasi ha inoltre permesso di rendere le frontiere di Tunisia ed Egitto con la Libia ancora più porose, favorendo operazioni militari contro le forze di Gheddafi nel conflitto libico; infine il ‘caos’ propagatosi ha irrimediabilmente turbato importanti processi di autonoma integrazione mediterranea che rischiavano di estromettere pericolosamente gli stessi USA dall’area (partnership italo-libica, fronte Roma-Ankara-Mosca, progetto di gasdotto Iran-Iraq-Siria).

Giacomo Guarini, Carlo Prosperi, Fabrizio Di Ernesto2. La particolarità della crisi siriana: abbiamo visto in queste settimane la Siria e l’Iran nel mirino. La caduta del regime di Assad rappresenterebbe nell’area sicuramente un evento dagli effetti imprevedibili. E tuttavia rappresenterebbe un colpo fortissimo inferto all’Iran (di cui è saldo alleato) e di un certo fastidio anche per la Russia. Inoltre – come accennato – è proprio la possibilità che forze sunnite islamiste rimpiazzino il Baath al potere ad allettare le mire dei sauditi e dei loro alleati nella lotta regionale per l’egemonia contro il bastione sciita di Persia. La caduta del regime siriano è in effetti un obiettivo più vicino e probabile che non lo scontro diretto con l’Iran, il quale rappresenta in ogni caso il nemico ultimo nell’area per sauditi e statunitensi (2).

3. Finalità a valenza globale: i fenomeni di destabilizzazione in corso compromettono sicuramente la forza della penetrazione di nuovi attori globali emergenti, Cina in primis, nel Vicino Oriente e possono collocarsi in un contesto di ricercata ostruzione da parte USA dell’accesso alle più importanti aree strategiche del globo ai nuovi competitori internazionali; si veda l’attività del comando militare statunitense per l’Africa (Africom), per la quale anche diversi analisti occidentali sottolineano l’importante funzione di contenimento e sbarramento della emergente presenza cinese nel continente africano; così come i recenti moniti di Obama alla Cina, durante la sua visita in Australia, in merito alla presenza nel Pacifico.

Abbiamo visto come il cerchio si stia stringendo sul grande nemico iraniano con pressioni contestuali e ancor più pericolose sull’alleato siriano. L’indebolimento della potenza iraniana potrebbe dare nei progetti USA linfa vitale alla loro penetrazione eurasiatica, a scapito grandi rivali continentali cinese e russo. La porta per una simile avanzata sarebbe costituita dall’area centroasiatica; identificata dal grande stratega statunitense Brzezinski (attuale consigliere dell’amministrazione Obama) come “Balcani eurasiatici”. Trattasi di un’area ricca di risorse e tuttavia lungi dall’essere sotto pieno controllo delle grandi potenze continentali (Russia e Cina, appunto), nonché polveriera di conflitti etnico-religiosi suscettibili di esplosione (non a caso è stata creata un’organizzazione di cooperazione – quella di Shanghai – che ha come primo scopo la sicurezza e la stabilità dell’area). In un simile scenario, un forte impegno degli USA volto a far leva sul fattore islamista nonché su frizioni etniche, potrebbe portare a creare una vasta zona di frattura nell’area centroasiatica, in grado di colpire duramente la stabilità dei due giganti asiatici anche perché suscettibile di facili sconfinamenti entro i loro confini interni (vedi le aree di crisi russa a considerevole presenza musulmana e lo Xinjiang cinese). Una lunga fascia di destabilizzazione che darebbe dunque non pochi pensieri ai grandi rivali eurasiatici degli USA.

In ogni caso, tornando al contingente e al nostro scenario di riferimento, vi sono al momento l’incognita siriana e quella iraniana. Un intervento armato in Iran vorrebbe dire scatenare un conflitto di imprevedibili proporzioni e conseguenze ma in effetti i recenti rumors su di un intervento militare sono stati talmente amplificati da far pensare più ad una volontà di fare pressione su Cina e Russia che non a reale volontà bellica, almeno nel breve periodo. Tuttavia anche l’intervento in Siria sarebbe probabilmente foriero di conseguenze e reazioni tutt’altro che circoscritte entro i suoi confini come – in un certo senso – può essere stato nel caso libico; non ha torto Assad quando paventa conseguenze disastrose per tutto il Vicino Oriente in caso di attacco al proprio paese. Vi è da constatare che l’establishment occidentale ha dimostrato in questi mesi tutto fuorché senso della misura e quindi un conflitto a breve, soprattutto in Siria, non può totalmente escludersi, tanto più se sulla questione siriana ci si potrà avvalere di una ‘procura’ turca. Determinante sarà la reazione di Russia e Cina, che già hanno fatto abortire tentativi di risoluzione al riguardo in sede ONU. I due paesi hanno spesso dimostrato molta cautela, evitando di fare “muro contro muro” con gli USA su questioni che non riguardavano le proprie immediate pertinenze territoriali o interessi vitali. La Cina, in particolare, cerca di potenziare al massimo il proprio sviluppo economico, rimandando nel tempo uno sforzo più strettamente politico a livello internazionale. Sinora, l’atteggiamento di Pechino è stato dunque di attesa: si è ritenuto da parte sua non proficuo sviluppare contrapposizioni frontali con gli USA, sulla base del fatto che la superpotenza è in fase di declino evidente. Inutile dunque rispondere in maniera frontale, quando il tempo potrà da solo portare ulteriori frutti amari al grande rivale americano.

Tuttavia, si fa vicino il momento in cui diventa necessario che un pur saggio atteggiamento attendista venga a confrontarsi in misura politicamente più assertiva contro l’aggressivo attivismo militare, politico e finanziario della potenza egemone. Sulla questione siriana la Russia sembra pronta a questo e ha già dato dei segnali con una serie di atti politici e ‘para-politici’. Vedremo allora quanto sarà forte la volontà degli USA e dei paesi ostili alla Siria (Turchia in primis) ad intraprendere nuove tragiche avventure belliche nella regione – o anche solo ad alzare in maniera indiretta il livello di destabilizzazione e conflittualità interne – e se nel caso la Cina e la Russia saranno disposte a lasciare di nuovo carta bianca alla sclerotica aggressività di una potenza incapace di accettare la crisi strutturale che l’attraversa e il conseguente declino.


Il BRICS in aiuto dell’Europa: T. Graziani interpellato da RT

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Il 29 novembre 2011 la televisione satellitare russa in lingua inglese RT ha trasmesso un servizio dal titolo “Eastern Promise”, all’interno del quale sono stati proposti gl’interventi d’alcuni esperti, tra cui quello di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG. Proponiamo di seguito il video del servizio, concernente i possibili investimenti strategici dei BRICS in Europa, e la traduzione della sintesi pubblicata da RT sul proprio sito.

Mentre le economie occidentali annaspano, l’Oriente ha visto una rapida crescita finanziaria. La presenza della Cina in Europa si può sentire più che mai, con Pechino intenta a fare investimenti strategici, sebbene sia ancora cauta sull’opportunità di comprare il debito del continente.
Con l’attuale turbolenza economica, non c’è momento migliore per paesi come la Cina per strappare accordi come quello per la recente acquisizione del noto marchio italiano della moda “Cerruti” da parte d’un venditore di vestiti di lusso cinese, proprietà del gruppo commerciale d’Hong Kong “Li&Fung”.
“La Cina è interessata ad investire in Italia, e nei paesi europei in generale. Credo sia una buona opportunità”, dichiara Tiberio Graziani, analista della rivista trimestrale “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”.
Non c’è solo la Cina a fare affari: per i paesi la cui economia gira bene, comprare i patrimoni europei è un ottimo investimento. Mentre l’Occidente annaspa, è il gruppo emergente BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a portarsi in testa.
“Questo può essere il momento a cui si guarderà indietro e si dirà: ecco quando i mercati emergenti ebbero la loro opportunità d’essere attori più grossi, e potenze più grosse nel mondo”, crede il cronista economico del “Wall Street Journal” Sudeep Reddy.
Ma se gli affari cinesi danno prova di grande competizione, la Cina ha mostrato cautela quando si è trattato d’acquistare il debito europeo. Vuole piuttosto partecipare in grandi progetti infrastrutturali in Europa e negli USA – e non solo come appaltatore, ma anche investitore, sviluppatore ed operatore. Così ha sostenuto Lou Jiwei, dirigente del fondo sovrano cinese, in un articolo domenicale sul “Financial Times”.
“Al CIC – ha argomentato – crediamo che un simile investimento, guidato dai principi commerciali, offra l’opportunità d’una soluzione vantaggiosa per tutta”.
Liu Baocheng, professore all’Università degli Affari ed Economia Internazionali, afferma che la Cina non pomperà denaro alla cieca nelle economie in difficoltà, senza avere parola su come saranno utilizzati.
“La Cina dovrebbe vederlo come un investimento, non un aiuto finanziario. L’investimento dovrebbe indirizzarsi verso i cespiti di valore, per aiutare le industrie, piuttosto che funzionare da assegno in bianco”.
Al crescere degl’investimenti cinesi nelle compagnie ed infrastrutture occidentali, crescono anche il controllo e l’influenza della Cina, non solo nella moda, ma nell’intera economia europea. Una delegazione di mercanti ed investitori cinesi visiterà l’Europa il prossimo anno: sono estremamente probabili ulteriori investimenti.
“L’aggregazione geoeconomica che chiamiamo BRICS può essere un interlocutore molto interessante per superare l’attuale crisi finanziaria”, si augura Tiberio Graziani.
Mentre la crisi continua a riarrangiare le avanguardie economie sulla scena economica, le economie emergenti come la Cina cercano di mantenersi saldamente sotto il riflettore.

Trieste: “La sfida dell’India: nascita di una superpotenza?”

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Si è tenuta a Trieste giovedì 1 dicembre 2011 alle ore 17.30, presso l’aula D1 della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Trieste (sita in Via Filzi 14), il seminario “La sfida dell’India”.
Sono intervenuti come relatori Francesco Brunello Zanitti (ricercatore all’IsAG, autore di
Progetti di egemonia), Vincenzo Mungo (redazione esteri di Radio RAI, autore de La sfida dell’India) e Arduino Paniccia (docente di Studi strategici all’Università degli Studi di Trieste).
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione “Strade d’Europa” in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed il contributo dell’Università degli Studi di Trieste.
Di seguito il resoconto dell’evento, redatto da Lorenzo Salimbeni, ed il testo dell’intervento di Francesco Brunello Zanitti.

 
LA CRONACA di Lorenzo Salimbeni

Sulla scena geopolitica mondiale sta prendendo corpo un nuovo soggetto, il BRICS, acrostico che indica Brasile, Russia, India, Cina e, da qualche mese, Sudafrica, vale a dire quelle potenze che in questo periodo di crisi economica del mondo occidentale possono invece vantare un trend positivo. Si tratta perciò di capire le basi e le cause di questo fenomeno e in particolare l’India è un Paese di cui neanche troppo se ne parla e poco effettivamente se ne sa. L’associazione Strade d’Europa, grazie al contributo dell’Università degli Studi di Trieste, in collaborazione con l’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, ha inteso approfondire l’argomento giovedì 1 dicembre organizzando il convegno La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?

Lorenzo Salimbeni apre la conferenzaL’evento riprendeva il titolo del volume scritto da Vincenzo Mungo, capo servizio Redazione esteri di Radio Rai, e pubblicato dalle Edizioni all’Insegna del Veltro ed è stato proprio l’intervento dell’autore ad aprire l’incontro. Innanzitutto è stato analizzato il percorso compiuto dall’India per conquistare la propria indipendenza, tenendo in considerazione non solo l’impegno profuso da Gandhi, ma analizzando pure il ruolo del Partito del Congresso, originariamente conformatosi alla dialettica politica britannica al fine di ottenere margini di autonomia, mentre furono Tilak e Bose i paladini della lotta per l’indipendenza senza compromessi. Aperture autonomiste, nonostante l’opposizione di Winston Churchill, furono elargite durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre nel corso della Grande Guerra la partecipazione di truppe indiane nei contingenti britannici non aveva portato alle concessioni che erano state promesse. Parallelamente, però, l’amministrazione inglese aveva esercitato il divide et impera per contrapporre la comunità indù a quella islamica, sicchè nel 1947 l’indipendenza venne ottenuta, ma il Pakistan, a maggioranza musulmana, si staccò dal resto del Paese (Partition) ed allontanò dal suo interno la componente indù. Nuova Delhi divenne pertanto la capitale dell’Unione Socialista Indiana, uno Stato federale che, pur nell’ambito di un sistema democratico, rimase fedele al sistema delle caste. Lo Stato imprenditore si fece carico di assorbire nella grande industria e nei servizi pubblici l’enorme massa di manodopera a disposizione e s’impegnò per debellare le zone di miseria e arretratezza specialmente in ambito agricolo, giungendo a garantire una qualità della vita in perenne aumento, costituendo la rete delle relazioni sociali e dei vincoli di casta un ulteriore prezioso ammortizzatore sociale. Il livello delle università e la diffusione di parchi industriali da cui ci si rivolge anche al mercato estero sono altri indicatori dei passi avanti che l’enorme nazione ha compiuto, ma causa l’eccessiva popolazione (siamo ormai attorno al miliardo e cento milioni di indiani) il PIL pro capite continua a rimanere basso.

L’attualità geopolitica è stata invece al centro della relazione del professor Arduino Paniccia, docente di Studi Strategici presso l’ateneo triestino, il quale ha già considerato l’India una superpotenza, che però si trova a dover fronteggiare diverse problematiche, poiché ha scelto di essere una democrazia di tipo occidentale, pur avendo un DNA ben diverso da quello europeo. Nonostante i conflitti scoppiati per la determinazione dei confini con Cina e Pakistan, l’India ha sempre cercato un approccio pacifico alla politica internazionale e d’altro canto ha scelto di dotarsi di un arsenale nucleare in ossequio al principio della deterrenza. Nei legami internazionali Nuova Delhi ha deciso di non aderire né all’ASEAN né all’ASEC ed ha altresì optato per la SCO, riproponendo in quest’ambito il legame con Mosca che risale dai tempi della Guerra Fredda, nonostante l’India avesse costituito il punto di riferimento più importante per il blocco dei Paesi Non Allineati. I rapporti con la Russia si confermano pertanto buoni, quelli con la Cina vanno migliorando, quelli con il Pakistan sono altalenanti, ma per il futuro indiano sarà importante non solo l’atteggiamento che si instaurerà nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dell’Unione Europea, con la quale i traffici stanno raggiungendo il livello di quelli che l’Europa già intrattiene con la Cina.

Lorenzo Salimbeni introduce i relatoriFrancesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, ha approfonditi tali aspetti di natura geopolitica, evidenziando i tentativi indiani di mantenere una linea politica autonoma da quella occidentale, in virtù della propria posizione strategica a metà strada fra gli stretti di Hormuz e di Malacca, gli snodi principali del commercio petrolifero. Perciò Nuova Delhi ha buone relazioni economiche con Israele, ma per il proprio fabbisogno energetico si rivolge senza problemi sia all’Arabia Saudita sia all’Iran (che è un interlocutore privilegiato anche per il contenimento del Pakistan), laddove con la Cina il rapporto oscilla tra competizione e cooperazione, poiché il sostegno di Pechino al Pakistan è in grado di deteriorare la partnership tra i due giganteschi Paesi. Per lo stesso motivo le relazioni con Washington stentano a decollare definitivamente, anche se i rapporti commerciali sono già bene avviati ed i governi indiani non hanno espresso contrarietà alla possibilità che contingenti statunitensi rimangano in Afghanistan anche dopo il 2014. Anche se il problema dell’estremismo islamico è in grado di creare una sinergia con Russia, Cina e Stati Uniti, l’India auspica di risolvere bilateralmente e senza il coinvolgimento di esterni il problema del Kashmir che è alla base delle sue tensioni con Islamabad.

In definitiva tutti i relatori si sono trovati concordi nel dare una risposta affermativa al quesito che caratterizzava il titolo del seminario: l’India è già una superpotenza e continuerà ad esserlo se, nell’ambito del processo di globalizzazione, saprà restare fedele alla propria storia ed alle proprie tradizioni, conservando anche quelle prerogative nel settore economico che vengono ancora esercitate dallo Stato, mentre l’adesione incondizionata ad un modello di economia di mercato rischierebbe di alterare i precari equilibri sociali indiani.

 
L’INTERVENTO di Francesco Brunello Zanitti

In questo mio intervento intendo presentare un particolare aspetto contemporaneo dell’India, ovvero il suo ruolo geopolitico in Asia, connesso alle relazioni del paese con la Cina e la Russia, nonché con alcuni attori regionali, come l’Iran e il Pakistan; verranno presi in considerazione anche l’approccio indiano nei confronti della questione afghana e alcuni elementi delle relazioni indo-statunitensi, visti gli interessi contemporanei di Washington in Asia Meridionale.

L’India sta indubbiamente attraversando una crescita economica considerevole, ma gli ultimi mesi hanno registrato un rallentamento degli ottimi risultati economici. Pechino si trova in una fase di crescita molto più consolidata rispetto a quella di Nuova Delhi; nonostante ciò anche l’India sta aumentando il proprio peso economico e geopolitico a livello globale. È dunque giusto porsi degli interrogativi sul sorgere della superpotenza indiana poiché esistono diverse questioni aperte, contraddizioni, ostacoli e paradossi che potrebbero influenzare in diversa maniera la crescita del paese asiatico. A questo proposito ritengo che le sfide che l’India dovrà affrontare saranno principalmente tre: il primo elemento riguarda, come ricordato nel libro di Mungo, la sfida posta dalla globalizzazione economica di stampo occidentale, se l’India riuscirà a mantenere la sua specifica cultura o sarà contraddistinta da quel livellamento culturale già evidente in altre aree del globo; il secondo aspetto concerne la geopolitica e le relazioni internazionali: saprà l’India mantenere una politica estera sostanzialmente autonoma? La terza problematica è rappresentata dagli ostacoli interni di tipo economico, sociale e politico. Se l’India riuscirà nei prossimi anni ad affrontare efficacemente queste sfide ritengo che potrà effettivamente diventare una superpotenza.

Grazie alla sua posizione geografica, l’India svolge un importante ruolo dal punto di vista geostrategico perché la massa terrestre del Subcontinente, estendendosi nell’Oceano Indiano, si trova a metà strada tra due importanti stretti dal punto di vista economico, geopolitico e militare, ovvero quello di Hormuz e quello di Malacca. Gli interessi geopolitici a livello marittimo di Nuova Delhi spaziano, infatti, dal Golfo di Aden, tra Yemen e Somalia, al Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, a livello terrestre l’India intende aumentare la propria influenza in Vicino Oriente, Asia Centrale, Estremo Oriente e sud-est asiatico.

Grazie a questa particolare posizione geografica e alle diverse componenti etniche e religiose che la contraddistinguono, l’India sta cercando di mantenere una politica sostanzialmente bilanciata tra diversi poteri.

L’importante ruolo geostrategico dell’India è naturalmente ben compreso da Washington, Mosca e Pechino, i maggiori attori che competono in Asia Centrale e nell’Asia-Pacifico.

Per quanto riguarda la Cina, le azioni degli ultimi vent’anni e l’ascesa dell’India a livello economico e militare sono sovente percepite come una minaccia, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione indiana posta nei confronti del Mar Cinese Meridionale e i discorsi aperti su potenziali accordi militari tra India, Vietnam e Giappone. Allo stesso modo i possibili legami militari ed economici tra India, Australia, Stati Uniti, Giappone e Singapore sono osservati a Pechino come azioni di contenimento verso la Cina. In ogni caso, il contemporaneo emergere della Cina come potenza con interessi nei confronti dell’Oceano Indiano, trasformandosi in attore egemone della zona meridionale del continente e non solo dell’area Asia-Pacifico, è valutato negativamente anche da Nuova Delhi: a questo proposito gli accordi commerciali e militari di Pechino con Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Myanmar, Bhutan e soprattutto l’alleanza militare e nucleare con il Pakistan, sono descritti anch’essi come tentativi d’accerchiamento della Cina nei confronti dell’India.

In realtà, la rivalità indo-cinese è molto spesso enfatizzata, come sostenuto dallo stesso primo ministro indiano Manmohan Singh, dai media, sia indiani sia cinesi. Nonostante permangano importanti contrasti, ad esempio per quanto riguarda il lungo confine, i rapporti economici tra i due paesi sono molto solidi e la Cina è uno dei più importanti partner commerciali dell’India, seconda solamente agli Stati Uniti. Inoltre, Pechino ha mutato la propria percezione dell’India per l’aumentata presenza statunitense in Asia Centrale e Meridionale e la grande ascesa economica di Nuova Delhi che non viene certamente sottovalutata, ma potenzialmente utilizzata per i propri interessi in Asia. Esiste quella che è stata definita un’alleanza economica di tipo pragmatico. Allo stesso tempo è da registrare una cooperazione importante in alcune zone del sud-est asiatico, come i potenziali progetti congiunti per lo sfruttamento del gas naturale in Myanmar. Vi è, inoltre, la comune appartenenza al forum dei BRICS, con la medesima percezione, assieme a Brasile, Russia e Sudafrica, di alcune questioni di carattere globale: le rivolte arabe, la visione critica nei confronti dell’intervento NATO in Libia e verso l’ipotetica azione militare occidentale in Siria, l’approccio alla questione del nucleare iraniano. Nello stesso tempo però permane una forte competizione in Asia Meridionale e nel sud-est asiatico, in misura minore in Africa e Asia Centrale a causa della ritardata penetrazione indiana in queste aree rispetto alla Cina. E’ evidente che una reale pacificazione nei rapporti tra Cina e India, le cui civiltà ebbero per buona parte della loro storia buone relazioni, genererebbe conseguenze positive per la stabilità asiatica, ma anche per quella mondiale, vista la crescente importanza a livello globale dei due paesi.

Il professor Paniccia pronuncia il suo interventoUn elemento, nell’ottica cinese, ma anche russa, che porta a considerare negativamente l’India è il rapporto che il paese asiatico ha instaurato con Washington, un’alleanza di tipo militare e nucleare.

In ogni caso, in India esistono diverse scuole di pensiero che hanno un’opinione critica a riguardo di una stretta alleanza con gli Stati Uniti.

Queste considerazioni ci portano dunque a considerare alcuni limiti dei rapporti indo-statunitensi.

1) Un primo aspetto riguarda l’Iran. Nonostante l’India abbia solidi rapporti con Israele dalla fine della Guerra Fredda, soprattutto dal punto di vista militare, e con il mondo arabo sunnita in competizione con l’Iran nel Vicino Oriente, Nuova Delhi ha come obiettivo il mantenimento di un positivo rapporto con Tehran. L’India è comunque contraria alla prospettiva del nucleare iraniano, risolvibile in ogni caso solamente mediante via diplomatica, e ha interrotto alcune esportazioni di materiale che potrebbe essere utilizzato per il programma nucleare, seguendo le direttive della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1929 del 2010. Il mantenimento di un proficuo rapporto con Tehran è dovuto a motivi di carattere geopolitico ed economico. A livello strategico un’alleanza indo-iraniana potrebbe essere una forma di contenimento verso il Pakistan. Inoltre, nell’ottica indiana, avere due Stati nemici ad ovest, il Pakistan e l’Iran, ma potenzialmente anche l’Afghanistan dopo il 2014, nel caso in cui Kabul ricada sotto l’influenza pakistana, appare una prospettiva controproducente per sviluppare gli interessi geostrategici futuri del paese in Asia Occidentale e Centrale. L’attenzione dell’India sull’area è fondamentale, non solo per la grande presenza di idrocarburi che soddisferebbe la crescente domanda energetica, ma anche per evitare che le repubbliche ex-sovietiche stringano un legame più forte con il Pakistan, considerata la comune religione islamica. Inoltre, la presenza della Cina nell’area è andata sempre più consolidandosi nel tempo. In ottica indiana, Tehran rappresenta un importante territorio di transito per raggiungere l’Afghanistan e l’Asia Centrale: esistono, infatti, gli ostacoli rappresentati dal Pakistan e dal territorio politicamente instabile del Kashmir, naturali e storici punti di passaggio indiano per commerciare con l’Asia Occidentale e Centrale. A livello economico l’Iran rimane, dopo l’Arabia Saudita, il secondo fornitore di petrolio dell’India e il suo territorio rappresenta una potenziale fonte di gas naturale per Nuova Delhi. Esistono a questo proposito diversi discorsi aperti per eventuali collegamenti via mare o via gasdotto.

2. I legami economici tra Nuova Delhi e Tehran ci portano a considerare un altro aspetto che limita i rapporti indo-statunitensi, facendo riferimento al legame molto stretto che esiste tra India e Russia. La scorsa settimana, a margine di un incontro tra i ministri degli esteri indiano e russo, Mosca e Nuova Delhi hanno sostenuto la volontà di ridar vita al progetto del Corridoio di trasporto Nord-Sud, accordo commerciale firmato nel 2001 tra Iran, India e Russia. Si tratta di un progetto per lo spostamento di merci indiane via mare, aggirando il Pakistan, dall’India fino all’Iran, da dove, attraverso il Mar Caspio, dovrebbero raggiungere i territori meridionali della Russia ed eventualmente l’Europa. Recentemente il governo indiano avrebbe manifestato l’interesse d’includere nel discorso anche la Cina e potenzialmente gli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale. Questo progetto per il commercio tra Asia Meridionale e Europa è in aperta competizione con l’architettura geostrategica a guida statunitense della “Nuova Via della Seta” che ha come obiettivo l’interdipendenza economica tra Europa, Caucaso, Asia Centrale e Meridionale in competizione con Cina e Russia. In questo caso le maggiori problematiche riguardano l’Iran e l’instabilità dell’Afpak, ma bisognerà anche attendere quale progetto l’India favorirà, visto che al momento sembra interessata ad entrambi.

La Russia rimane il principale fornitore di armi dell’India; i legami indo-russi sono molto solidi, eredi di quelli che il paese asiatico manteneva con l’Unione Sovietica. Inoltre, esiste la comune lotta contro l’estremismo di stampo musulmano che ha colpito nel passato sia la Russia sia l’India, se si pensa al Caucaso e al Kashmir. Questa politica vede unite non solo Russia e India, ma potenzialmente anche la Cina, vista la presenza dell’estremismo di matrice islamica nello Xinjiang. A questo proposito l’effettiva presenza dell’India all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS) potrebbe comportare non solo una maggiore collaborazione tra Pechino, Mosca e Nuova Delhi, ma anche modificare decisamente gli equilibri geopolitici.

3. Un terzo aspetto nel quale Stati Uniti e India non sono sovente concordi riguarda il Pakistan. L’India ha sempre criticato l’eccessivo legame tra Islamabad e Washington, nonostante negli ultimi mesi l’alleanza tra i due paesi sia sempre più in crisi. L’India ha inoltre una visione molto critica nel considerare il possibile dialogo con i talebani moderati e la rete Haqqani, nonostante nello stesso tempo gli Stati Uniti chiedano al Pakistan di porre termine all’appoggio verso i gruppi terroristi lungo la linea Durand. Il problema è collegato alla sindrome d’accerchiamento pakistana e alle preoccupazioni nei confronti dei disegni egemonici dell’India nella regione. Nuova Delhi giudica positivamente la presenza statunitense con basi militari in Afghanistan, eventualmente anche dopo il 2014, ma è critica verso il possibile dialogo con i talebani moderati, paventando un possibile ritorno dell’influenza pakistana sul paese.

Nonostante il fatto che Islamabad veda il recente accordo commerciale e militare tra India e Afghanistan come una sorta di pericoloso accerchiamento, negli ultimi mesi si è registrato un timido miglioramento nei rapporti tra i due vicini rispetto al 2008. Un editoriale del “The Hindu” di pochi giorni fa, parlando a proposito del dialogo indo-pakistano, indicava come modello di riferimento da seguire le recenti relazioni tra India e Cina, dove sono state messe in secondo piano le questioni territoriali per favorire in primo luogo un discorso legato alla cooperazione economica, possibile chiave per risolvere i problemi legati al confine. Ci sono importanti settori della società indiana che chiedono una soluzione dei contenziosi con Islamabad e una definitiva pacificazione. In ogni caso sembra che l’India intenda mantenere una politica autonoma da Washington nei confronti del Pakistan, seguendo i propri interessi. Islamabad avrebbe recentemente garantito, anche se la questione è poco chiara per le numerose pressioni interne contrarie, lo status di nazione più favorita all’India, clausola economica all’interno delle regole garantite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Vi sono piccoli segnali di miglioramento, ma esistono in ogni caso numerosi problemi: Islamabad non ha provveduto alla richieste indiane di chiare indagini per gli attentati di Mumbai del 2008 e d’interrompere i collegamenti con l’artefice degli attacchi, la Lashktar-e-Taiba. Il Pakistan è diviso tra governo civile da una parte e settore militare e ISI dall’altra, i quali, assieme ai gruppi islamici radicali hanno una grande influenza e osservano un avvicinamento all’India come una sorta di anatema. Ecco perché allo stato attuale non esiste un possibile rasserenamento tra i due paesi perché il Pakistan percepisce negativamente l’influenza indiana in Asia Centrale e Afghanistan. Inoltre, un accordo definitivo con l’India e l’attacco ai gruppi islamici radicali metterebbe in discussione la religione, elemento che ha dato origine e legittimità alla nazione, nonché collante di un paese diviso da contrasti etno-linguistici.

Per questo motivo la vicinanza statunitense verso Islamabad, nonostante le incomprensioni degli ultimi mesi e l’avversione dell’opinione pubblica pakistana nei confronti degli Stati Uniti sempre più forte, è letta negativamente dall’India.

Nuova Delhi è, inoltre, contraria a collegare il delicato discorso riguardante il Kashmir all’Afghanistan, connesso all’ideale della “Grande Asia Centrale” a guida statunitense, per l’importanza nazionalistica del tema, l’assoluta contrarietà alle ingerenze esterne e l’intenzione di risolvere la questione a livello bilaterale con il Pakistan. Per quanto riguarda infine un possibile scontro militare tra i due paesi, è attualmente improbabile grazie alla deterrenza nucleare. E’ evidente la superiorità militare convenzionale indiana, ma questa è paradossalmente limitata dalla presenza in entrambi i campi di ordigni nucleari. In un certo senso la deterrenza nucleare è uno svantaggio per l’India. Tutto sommato è probabile che, nel caso di un ulteriore peggioramento dei rapporti, le “azioni militari” vengano compiute dai gruppi terroristici radicali.

Negli ultimi mesi sembra dunque prevalere la volontà di mantenere una sorta di politica bilanciata tra diversi poteri. Questo si collega all’ideale della costituzione geopolitica di un mondo multipolare piuttosto che unipolare, nel quale le problematiche dell’Asia Centrale e Meridionale e del sud-est asiatico vengano risolte a livello regionale, mediante un’essenziale cooperazione tra il quadrilatero Nuova Delhi, Pechino, Mosca e Washington.

L’India potrebbe garantire la stabilità regionale e il dialogo tra poli contrapposti perché questo appare l’obiettivo primario per favorire essenzialmente la propria sicurezza interna. Infatti, non c’è solo la questione kashmira che potrebbe comportare una pericolosa instabilità dello Stato, ma anche l’estremismo religioso, soprattutto di matrice indù e islamica; l’indipendentismo di alcuni territori del nord-est a ridosso del confine con la Cina; le rivolte naxalite di stampo maoista nel centro e nord-est del paese; così come l’autonomismo di diversi territori regionali, i quali, pur rimanendo all’interno dell’Unione Indiana e essendo portatori di legittime richieste, potrebbero ostacolare la crescita interna dello Stato, nonché una sua frammentazione; a questo proposito il caso più importante degli ultimi mesi è quello del Telangana, regione settentrionale dell’Andhra Pradesh che ho visitato personalmente più di un anno fa; l’eventuale nascita di un nuovo Stato, all’interno comunque dell’Unione, potrebbe comportare la medesima richiesta d’autonomia per questioni economiche, etniche e problematiche d’approvigionamento di risorse, principalmente idriche, in diverse zone dello Stato.

Insomma, il ruolo geostrategico contemporaneo dell’India non sembra strettamente connesso né all’universo guidato dagli Stati Uniti, nonostante l’India sia una democrazia che la rende simile ai paesi occidentali, né al sistema di alleanze creato da Russia e Cina, malgrado sia aperto con Mosca e Pechino un importante dialogo per la stabilità in Asia Centrale. L’obiettivo dell’India è dunque quello di essere un polo indipendente capace di garantire la stabilità del continente asiatico mantenendo una posizione il più possibile equilibrata tra i diversi attori regionali e globali. Questa è un’aspirazione che si collega alla particolare posizione geografica del paese, il quale è punto d’incontro tra diverse influenze, culture e religioni; l’India sembra cercare una politica estera autonoma anche per l’aumento negli ultimi anni del nazionalismo indiano che richiede un ruolo di potenza per lo Stato asiatico; questa politica è anche erede del ruolo assunto durante la Guerra Fredda come capofila del Movimento dei Paesi Non Allineati, né aderente al polo guidato dagli Stati Uniti, né strettamente connessa all’Unione Sovietica, nonostante esistesse un rapporto privilegiato con Mosca.

In una fase storica in cui l’area dal Vicino Oriente all’Asia Meridionale è attraversata da una forte competizione tra diversi attori regionali e globali bisognerà comprendere se questa possibile strategia sarà vantaggiosa per l’India al fine di mantenere una sostanziale autonomia non solo a livello geopolitico, ma anche economicamente, rispondendo efficacemente al processo di globalizzazione ispirato dall’Occidente.

Il ruolo dell’India potrebbe cambiare se si verificherà l’adesione, assieme al Pakistan, all’OCS, opzione caldeggiata negli ultimi mesi da Russia e Cina, anche se per il momento sembra un’opzione prematura per Nuova Delhi. In questa fase non è ancora chiara l’adesione completa o meno, dato l’aumentare negli ultimi anni dei legami economici e militari con Washington, ma eventualmente sarebbe un importante fattore geopolitico nell’area e gli scenari futuri saranno certamente molto interessanti anche per un’eventuale normalizzazione dei rapporti indo-pakistani.

In ogni caso ritengo che unitamente a questa autonomia in politica estera, collegandomi al tema principale trattato nel libro di Vincenzo Mungo, l’India ha la possibilità di vincere la sua sfida contemporanea nei confronti della globalizzazione di stampo occidentale grazie alla sua antica cultura. E’ una sfida difficile, ma l’India ha tutte le potenzialità per poter crescere e presentare a livello mondiale un modello concorrenziale e alternativo.

In conclusione, vorrei segnalare che è in uscita l’ultimo numero dell’anno di “Eurasia” dedicato ai paesi del BRICS, nel quale personalmente considero alcuni aspetti dell’aumentata influenza geopolitica indiana che potrebbe essere ostacolata dai paradossi nei rapporti diplomatici con Stati Uniti e Cina, nonché dall’instabilità in diverse aree del paese.

I rapporti tra Italia e Iran: T. Graziani e D. Scalea all’IRNA

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Il presidente Tiberio Graziani e il segretario Daniele Scalea sono stati interpellati dall’IRNA, agenzia di stampa iraniana, a proposito dell’andamento dei rapporti tra l’Italia e l’Iran. L’articolo in farsi può essere consultato cliccando qui. Di seguito, le risposte che i due rappresentanti dell’IsAG hanno dato all’intervistatore:

 
È giusto secondo voi che l’Italia segua le politiche guerrafondaie degli Stati Uniti a discapito dei suoi propri interessi nei confronti dell’Iran, in una situazione di stallo se non addirittura di recessione economica, lasciando il posto alle imprese asiatiche e russe dopo tanti sforzi per guadagnarsi un mercato fiorente che dà lavoro anche a migliaia di persone in Italia?

Anche dopo l’inserimento del Patto Atlantico, l’Italia ha cercato a lungo di condurre una politica autonoma nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Purtroppo, gli artefici di questa linea di politica estera indipendente e “terzomondista” sono quasi tutti finiti male. Mattei e Moro sono stati uccisi, Craxi e Andreotti travolti da scandali giudiziari che ne hanno chiuso la carriera politica anzitempo. E’ così avvenuto che, dall’inizio degli anni ’90, l’Italia si sia allineata docilmente alla linea dettata da Washington. Vale a dire che, proprio nel momento in cui finiva la Guerra Fredda in Europa e cominciava a delinearsi con maggiore chiarezza la divergenza d’interessi tra le due sponde dell’Atlantico, l’Italia ha optato per una rigida disciplina di blocco. Oggi che il nostro paese è preda della speculazione internazionale, d’una grave crisi del debito, e retto da un governo di tecnocrati imposto dall’esterno, è arduo pensare che possa assumere iniziative autonome nella regione. Nei prossimi anni l’Italia sarà ancora più allineata a USA e Israele.

Quanto alle sanzioni, gli imprenditori italiani presenti sul territorio iraniano si preoccupano per il futuro delle loro imprese e affari, perché non possono più firmare alcun contratto con controparte iraniana e vedono sgretolarsi anni di lavoro in quel paese in mano ai Cinesi, Indiani e Russi.
Secondo il ministro Terzi, bisogna accrescere la pressione sull’economia iraniana anche se l’ impatto delle sanzioni sulla nostra economia è un aspetto fondamentale: più le pressioni si accrescono, più la nostra attenzione ed i nostri scrupoli sono evidenti.
Questo mentre l’interscambio commerciale tra i due paesi nel 2010, è arrivato a 7 miliardi di Euro e ora trovare un equilibrio tra politica ed interessi economici non sarà facile; ed è un problema per una diplomazia matura che intende superare la diplomazia del ridere e scherzare.
Lei cosa ne pensa?

Il punto non è conciliare politica ed interessi economici, ma l’interesse nazionale italiano con quello del blocco atlantico, ed in particolare del capoalleanza, gli USA. L’interesse nazionale italiano sarebbe ovviamente quello d’avere buoni rapporti con l’Iran così come con tutti i paesi della regione che va dal Nordafrica al Medio Oriente. L’interesse nazionale italiano è anche che questa regione sia pacifica e stabile, per potervi commerciare e fare affidamento come fonte d’approvvigionamento energetico. Al contrario, gli USA da anni perseguono una linea destabilizzante nell’area. Il problema è che gli USA riescono ad influenzare il governo italiano non solo tramite i contatti bilaterali (e multilaterali nella NATO), ma soprattutto grazie all’azione del loro “soft power”. Washington investe in Italia (come in altri paesi) milioni di euro ogni anno per finanziare istituti di ricerca, fondazioni, gruppi politici, singoli giornalisti o uomini di potere, persino studenti promettenti. Questi milioni di euro spesi sono un investimento, perché garantiscono agli USA un forte favore all’interno della classe dirigente italiana.

Stage in telelavoro

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Chi desidera arricchire il proprio curriculum e bagaglio d’esperienze con l’attività in un prodotto editoriale di tenore scientifico, troverà nell’IsAG un ambiente pronto ad accoglierlo, con percorsi formativi creati su misura per ciascun tirocinante a seconda dei suoi interessi e delle sue ambizioni, nonché la possibilità di svolgere lo stage a distanza tramite Internet. C’è anche la possibilità di convertire lo stage in crediti formativi universitari.
Lo stage si svolge esclusivamente per conto di università ed altri enti convenzionati con l’IsAG. L’Istituto sarà lieto di prendere in considerazione proposte d’ulteriori convenzioni.
In alternativa, è possibile avviare collaborazioni volontarie, non retribuite e a distanza, a seguito delle quali l’IsAG garantirà ai soggetti meritevoli referenze ed attestati.
Per maggiori informazioni consultare il seguente prospetto in pdf: [clicca]

Il presidente T. Graziani commenta le elezioni russe a Sky TG24 e Radio Vaticana

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato invitato a commentare le recenti elezioni russe, ed in particolare il complesso dopo-elezioni, ai microfoni di Radio Vaticana (confrontandosi con Fabrizio Dragosei del “Corriere della Sera”) e Sky TG 24 (ospite in studio durante l’edizione serale).
L’intervista a Radio Vaticana può essere riascoltata cliccando qui. Di seguito le sintesi dei due interventi.

Radio Vaticana

Il presidente Graziani ha fatto notare che al calo di Russia Unita ha fatto da contraltare la crescita del Partito Comunista: il senatore statunitense McCain sbaglia a predire l’arrivo della “primavera araba” in Russia. Negli ultimi anni il presidente russo Medvedev si è concentrato sulle liberalizzazioni e si è appoggiato a tecnocrazie e oligarchie: questo fatto è stato avvertito dagli elettori, che si sono spostati verso Zjuganov. Il futuro presidente Putin dovrà tenerne conto, cosicché il pungolo dei comunisti sarà per lui un valore aggiunto: Zjuganov è una personalità di spessore, uno studioso di geopolitica cui preme innanzi tutto la centralità della Russia nel nuovo scenario multipolare. Con strumenti, metodologie, linguaggi e sensibilità diversi, alla fine è però sinergico alla strategia di Putin. A vincere le elezioni, in ultima analisi, è stata una certa concezione della Russia, proiettata come potenza nel XXI secolo.

Sky TG24

Il presidente Graziani ha affermato che il calo della popolarità di Russia Unita era fisiologica dopo la presidenza di Medvedev, che ha trascurato molti strati sociali critici in omaggio ad una logica tecnocratica e neoliberista. Ma le manifestazioni vanno lette anche come conseguenza del soft power statunitense, vista l’ingerenza di Hillary Clinton negli affari interni russi subito dopo le elezioni. Il discorso statunitense tende prima a screditare il governo del paese-bersaglio, per poi passare alla sollevazione di piazza enfatizzata a livello massmediatico. I casi recenti, da quello jugoslavo a quello libico, insegnano come tali manifestazioni facciano perno su alcune ONG. Questo schema risponde alla logica della geopolitica del caos, alla destabilizzazione di quell’area che dal Mediterraneo va all’Asia Centrale, per separare l’Europa dai suo vicini, per poi giungere alla Russia, il grande obiettivo finale della strategia di Washington. Per quanto riguarda la democrazia russa, non si tratta di una “finta democrazia” ma di una “democrazia autoritaria”, che risente del suo retroterra culturale molto diverso da quello occidentale.

Tiberio Graziani al Forum Innovazioni Italia-Russia

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), ha partecipato al Forum Innovazioni Italia-Russia.

Il Forum, promosso dal Centro di Studi Russi dell’Università “La Sapienza” di Roma in collaborazione con la Fondazione “Russkiy Mir” e l’EURISPES, si è svolto i giorni 12 e 13 dicembre nella Sala del Senato Accademico, presso il Palazzo del Rettorato dell’Università “La Sapienza” di Roma, in Piazza Aldo Moro 5.

Il presidente Graziani ha preso parte all’ultima tavola rotonda tematica che si svolta martedì 13 dalle ore 18.30 alle ore 19.30, sul tema “Italia e Russia nei nuovi assetti geopolitici”. Moderata dal professor Antonio Folco Biagini, ha visto il presidente dell’IsAG Tiberio Graziani confrontarsi con Tatiana Mozel (prorettrice dell’Accademia Diplomatici di Mosca), Anton Ilin (rappresentante europeo di “Russkiy Mir”), Aleksej Turbin (PJSC “Omega”, Transneft) e Gabriele Natalizia (La Sapienza).

Presentiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato dal presidente Tiberio Graziani.
L’INTERVENTO di Tiberio Graziani

La Russia è un interlocutore di primaria importanza per l’Italia, e lo è sotto due punti di vista: uno energetico, ed uno diplomatico. Ma solo per comodità omettiamo qui di citare settori minori, ma non per questo privi di rilievo, nei rapporti bilaterali, come il commercio, il turismo, gli scambi culturali e così via.

Dal punto di vista energetico, il legame è ovvio: da un lato si ha una grande nazione produttrice, dall’altra una nazione territorialmente molto più piccola, ma economicamente grande, che è consumatrice. La Russia possiede una delle dieci maggiori riserve di petrolio, bene di cui è tra i primi produttori ed il primo esportatore mondiale. L’Italia è tra i quindici maggiori consumatori di petrolio, ed il settimo maggiore importatore mondiale. Per quanto riguarda il gas naturale, la Russia possiede un quarto delle riserve mondiali provate, si contende con gli USA la palma di maggior produttore mentre guida la classifica degli esportatori. L’Italia è il quarto maggiore importatore di gas al mondo, dietro solo a USA, Giappone e Germania.
Queste sono statistiche note, ma si possono aggiungere anche altri dati. La Russia ha il 15% delle riserve mondiali di carbone e ne è il terzo maggiore esportatore. Solo Germania e GB in Europa importano più carbone dell’Italia. La Russia è anche il quinto maggiore produttore d’elettricità da fonti rinnovabili, mentre l’Italia è il secondo maggiore importatore mondiale di elettricità: solo gli USA ne acquistano dall’estero più di noi. E tutto ciò malgrado l’Italia abbia un consumo pro capite di elettricità piuttosto basso: siamo al livello della Libia, oltre il quarantesimo posto in una graduatoria mondiale.
Il fato ha voluto che l’Italia fosse distante dalla Russia un paio di migliaia di chilometri, e le recenti generazioni hanno fatto sì che questo spazio fosse coperto da oledotti e gasdotti. Circa il 30% del gas naturale consumato in Italia proviene dalla Russia: si tratta del 35% del gas importato complessivamente.
Alcuni fatti recenti accrescono la dipendenza italiana dagli approvvigionamenti energetici russi. Si tratta di:

    - rinuncia al nucleare: sull’onda emotiva provocata dall’incidente di Fukushima, i cittadini italiani hanno per la seconda volta bocciato la produzione d’energia nucleare in Italia;

 

    - difficoltà nello sviluppo delle fonti rinnovabili: per lanciarsi nelle tecnologie d’avanguardia non serve solo l’inventiva – una dota connaturata all’italiano – ma anche il danaro. Il nostro sistema economico, imperniato sulle PMI, ha molti pregi ma anche punti deboli: imprese piccole e medie hanno minore capacità d’investire nella ricerca e nell’innovazione rispetto alle grandi corporazioni. L’onere della ricerca e sviluppo spetterebbe dunque allo Stato, il quale non appare però nelle condizioni finanziarie ideali per fare grossi investimenti nel campo;

 

    - conflitto libico: un altro nostro grande approvvigionatore energetico vive una fase drammatica e di profonda insicurezza. A seconda dei futuri sviluppi politici, il rapporto privilegiato con l’Italia potrebbe proseguire ma anche interrompersi, a vantaggio, presumibilmente, degli sponsor principali della guerra. Inoltre, le distruzioni provocate dal conflitto si fanno sentire sulla produzione del paese: molti analisti sono scettici sulla prospettiva, proclamata dal governo libico, di recuperare i livelli di produzione ed esportazione pre-bellici per la fine del 2012;

 

    - destabilizzazione del MENA: non solo la Libia, ma in generale tutta quell’area che gli anglosassoni chiamano MENA, ossia il Nordafrica, il Levante ed il Medio Oriente, e che è un altro grande bacino di risorse energetiche, vive una fase di rivolgimenti ed instabilità. Rivolte e cambi di governo o di regime si susseguono, crescono le tensioni inter-etniche ed inter-religiose, s’accumulano venti di guerra tra gli emirati del Golfo e l’Iran, tra la Turchia e la Siria, tra Israele ed altri paesi. Il pericolo di un grave incidente che provochi una pesante diminuzione delle esportazioni petrolifere è ormai elevato.

Questo dovrebbe spingerci ad interrogarci a proposito delle politiche europee, patrocinate – per chiare finalità geopolitiche – da Washington, di differenziazione dell’importazione energetica. Il quadro di cui sopra potrebbe apparire ad alcuni un buon motivo per insistere in tale politica, anzi darle maggiore priorità. Ma si può anche leggere all’inverso: da un lato abbiamo la Russia, che ormai da decenni garantisce un flusso sicuro ed ininterrotto. Dall’altro una regione destabilizzata, frazionata, sull’orlo della guerra, in endemico stato di rivolta; e prospettive futuristiche di nuove tecnologie che però, al momento, sono tutto fuorché una sicurezza.
Mentre i tedeschi si sono già messi al sicuro con la costruzione del Nord Stream, il progetto speculare del South Stream, di cui invece dovrebbe beneficiare principalmente l’Italia, procede ancora a rilento. La realizzazione di quest’opera, che aumenterebbe e renderebbe ancor più sicuri gli approvvigionamenti di gas dalla Russia, andrebbe posta come una priorità strategica per l’Italia. E dunque dovrebbe diventare anche una delle priorità della politica estera del nostro governo. Bisognerebbe anche avere il coraggio di dire che il Nabucco non è un grande affare: non lo è economicamente, come sanno tutti gli operatori, ma non lo è nemmeno strategicamente, almeno per l’Italia. Andare a prendere grosse quantità di gas dal Turkmenistan, probabilmente dall’Iraq, forse dall’Egitto, in prospettiva persino dall’Iran, e farlo transitare nel cuore del Vicino e Medio Oriente, potrebbe essere una buona idea per una grande potenza, ma non certo per una media potenza come l’Italia. Bisogna chiarire una volta per tutte che non basta tracciare una linea d’approvvigionamento e sviluppare le necessarie infrastrutture ed accordi economici. Una volta che la rotta è in funzione, bisogna saperla difendere. E quale influenza, quali capacità di proiezione della sua forza, ha l’Italia rispetto a regioni come il Vicino Oriente, il Caucaso, il Caspio o l’Asia Centrale? La risposta è che dovremmo affidarci agli USA, alla loro capacità e volontà d’intervenire massicciamente in queste aree complesse, che già oggi faticano a domare. Privilegiare il Nabucco rispetto al South Stream sarebbe un azzardo pericoloso, pericolosissimo per l’Italia.

Veniamo in breve al secondo aspetto per cui la Russia è assai rilevante, strategicamente, rispetto all’Italia: quello diplomatico. Una costante della politica estera italiana è sempre stata una certa subalternità. L’unità d’Italia fu realizzata da un piccolo Stato, il Regno di Sardegna, che vi riuscì appoggiandosi alla Francia di Napoleone III (per la conquista della Lombardia e del Centro), alla Gran Bretagna (per quella del Mezzogiorno) ed alla Prussia (per incorporare il Nord-Est e il Lazio). L’Italia unita fu riconosciuta come una grande potenza, sì, ma “l’ultima delle grandi potenze”. E perciò fu sempre alla ricerca di un alleato maggiore cui appoggiarsi. Inizialmente era il Secondo Impero francese; poi, dopo Sedan e le fallite avances rivolte alla Gran Bretagna, fu il Secondo Reich tedesco. Nella Prima Guerra Mondiale si passò all’alleanza con Parigi e Londra, per poi tornare a Berlino negli anni ’30; dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, l’alleato/patrono di riferimento sono diventati gli USA: condizione che perdura ancora oggi.
Tutti questi rapporti sono stati caratterizzati da una dose, più o meno marcata, di subalternità dell’Italia rispetto all’alleato. E Roma, tradizionalmente, ha sempre cercato di controbilanciare questa condizione intrattenendo nel contempo relazioni significative con altri interlocutori di potenza pari o quanto meno paragonabile a quella dell’alleato. Il Regno di Sardegna controbilancia l’influenza dell’alleato francese con l’amicizia britannica; l’Italia alleata dei Tedeschi si concedeva “giri di valzer” con i britannici e francesi; la Repubblica ha in qualche modo cercato di controbilanciare lo strapotere statunitense appoggiandosi all’asse franco-tedesco ed anche, durante il periodo del neoatlantismo in particolare, all’URSS. La Russia mantiene questa fondamentale funzione di appiglio diplomatico, cui ricorrere per controbilanciare l’alleanza, assolutamente asimmetrica e sbilanciata, con Washington.

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Versione russa:

Для Италии Россия является партнером первостепенного значения по двум пунктам: энергетическому и дипломатическому. Для краткости опускаем здесь менее крупные, но не менее важные для двухсторонних отношений секторы, такие как коммерция, туризм, культурный обмен и т.д.

С точки зрения энергетики связь очевидна: с одной стороны есть большая страна производитель, с другой стороны – территориально гораздо меньшая, но экономически сильная, являющаяся потребителем. Россия владеет одним из наиболее крупных запасов нефти, являясь среди первых производителей и одним из первых мировых экспортеров этого товара. Италия же – среди пятнадцати самых крупных потребителей и седьмая крупнейшая страна-импортер в мире. Что же касается природного газа, то Россия владеет одной четвертой его установленных мировых запасов, соперничая с США за пальму первенства в его производстве и в то же время возглавляя список его экспортеров. Италия – четвертый импортер газа в мире, уступающий лишь США, Японии и Германии.

Это известные статистические данные, к которым можно добавить и другие. Россия владеет 15% мировых запасов угля и является его третьим по величине экспортером. В Европе только Германия и Великобритания импортируют большее количество угля по сравнению с Италией. Россия является также четвертым производителем электричества из возобновляемых источников, и лишь США во всем мире приобретают его больше нас. И все это несмотря на то, что у Италии потребление электричества на человека довольно низкое: мы на уровне Ливии, за сороковым местом в мировой классификации.

Фактически Италия отстоит от России на пару тысяч километров и усердиями последних поколений это пространство на сегодняшний день пронизано нефте- и газопроводами. Около 30% природного газа потребляемого в Италии поступает из России: имеется в виду из 35% импортируемого газа в целом.

Некоторые недавние факты говорят об увеличении зависимость итальянской экономики от энергетического снабжения поступающего из России. Имеются в виду:

отказ от ядерной энергии: в результате эмоциональной волны, вызванной аварией на Фукушиме итальянцы во второй раз проголосовали против производства в Италии атомной энергии;
трудности в развитии возобновляемых источников: для развития новейших технологий нужна не только изобретательность, но и денежные средства. Наша экономическая система базирующаяся на НМТ имеет много достоинств, но и много слабых сторон: малый и средний бизнес обладают меньшими возможностями инвестирования в исследования и инновации по сравнению с большими корпорациями. Бремя исследований следовательно лежит на государстве, которое однако не не имеет возможности осуществлять большие инвестиции в этих областях;
ливийский конфликт: другой наш крупнейший поставщик энергии находится в драмматической ситуации и глубокой нестабильности. В зависимости от будущего развития политики привилегированные отношения с Италией могут продолжиться или же прерваться, возможно в пользу главных спонсоров войны. Кроме того разрушения спровоцированные конфликтом дают о себе знать на производстве страны: многие аналисты скептически относятся к перспективе заявленной ливийским правительством о возвращении к концу 2012 года на довоенный уровень производства и экспортирования;
дестабилизация MEНA: не только Ливия, но в целом и вся эта зона, называемая англосаксонцами MEНA, иначе говоря Северная Африка, страны Ближнего Востока и Средний Восток, являщаяся еще одной крупной зоной энергетических ресурсов находится в фазе переворотов и нестабильности. Чередуются восстания и смены власти или режимов, растет межэтническое и межрелигиозное напряжение, нарастает ветер войны между Эмиратами Залива и Ираном, Турцией и Сирией, Израилем и другими странами, На сегодняшний день велика опасность тяжелого столкновения, которое может спровоцировать сильное уменьшение экспортирования нефти.

Вышесказанное должно заставить нас задуматься о европейской политике, находящейся – по вполне понятным геополитическим причинам – под покровительством Вашингтона дифференциации импортирования энергии. Эта картина некоторым может показаться хорошим поводом для упорствования в этой политике и даже обладающей высокой приоритетностью. Но можно также интерпретировать ее и иначе: с одной стороны у нас есть Россия, которая уже десятилетия гарантирует гарантированную и непрерывную поставку. С другой стороны дестабилизированный, раздробленный регион, находящияся на пороге войны, в эндемическом состоянии восстания; и футуристические перспективы новых технологий, которые однако, на данный момент совсем не дают ощущения безопасности.

В то время как немцам уже обеспечены поставки благодаря строительству NordStream, зеркальный проект SouthStream, из которого должна получить пользу в основном Италия, продвигается медленно. Реализация этого проекта, который увеличил бы поставки газа из России и сделал бы их более безопасными, должна была бы восприниматься как стратегически проритетной для Италии. И следовательно она должна была стать одним из приоритетов внешней политики нашего правительства. Нужно было бы также иметь смелость признать что Nabuccoне является выгодным проектом: ни экономически – и это знают все операторы, ни стратегически, по крайней мере для Италии. Брать большие объемы газа у Туркменистана, вероятно у Ирака, или может быть у Египта, а в перспективе может быть даже и у Ирана, переправлять его через сердце Ближнего и Среднего Востока, могло бы быть хорошей альтернативой для страны большой а не средней политической силы как Италия . Нужно раз и навсегда признать, что не достаточно всего лишь размечать линию поставки и развивать необходимые инфраструктуры и экономические соглашения. После проложения курса нужно уметь его защищать. А какое влияние, какие возможности показа своей мощи имеет Италия в отношении таких регионов как Ближний Восток, Кавказ, зона Каспийского моря или Центральная Азия? Ответ заключается в том, что мы могли бы полагаться на США, на их возможности и желание массового вмешательства в эти сложные регионы, которые уже в настоящее время с трудом подвергаются подавлению. Оказывать предпочтение Nabucco в ущерб SouthStreamбыло бы большим риском, очень опасным для Италии.

Поговорим вкратце о втором аспекте, из-за которого Россия является стратегически очень важной страной для Италии – дипломатическом. Постоянной и характерной чертой внешней политики Италии всегда являлась некоторая подчиненность. Объединение Италии было осуществлено маленьким государством Королевство Сардинии, благодаря поддержке Франции при Наполеоне III (для завоевания Ломбардии и Центральной части полуострова), Великобритании (для завоевания Юга) и Пруссии (для присоединения северо-востока и региона Лацио). Да, Объединенная Италия была признана в качестве государства с большой политической силой, но была «последней среди сильных». Поэтому она всегда искала поддержки более сильного союзника. Вначале союзником была Вторая французская империя; потом, после Седана и неудавшихся авансов Великобритании, союзником стал Второй Рейх Германии. В Первой мировой войне Италия заключила союз с Парижем и Лондоном, а потом перешла к Берлину в 30-ые годы; после поражения во Второй мировой войне союзником/покровителем Италии стали США, состояния, продолжающееся до сих пор.

Все эти дипломатические отношения характеризовалсь более или менее заметной толикой подчиненности Италии по отношению к союзнику. И традиционно Рим всегда пытался уравновесить этот дисбаланс, одновременно строя солидные отношения с другими партнерами, равными по политической мощи или по крайней мере сопоставимыми с союзником. Королевство Сардиния уравновешивает влияние союзника Франции с английской дружбой; Италия, заключившая союз с Германией позволяла себе «кружиться в вальсе» с Великобританией и Францией; Итальянская Республика в какой-то мере постаралась уравновесить слишком сильное влияние США опираясь на фрако-германскую ось, а также на протяжении неоатлантизма в частности, на СССР. Россия сохраняет эту основную функцию дипломатической опоры, к которой можно прибегнуть для уравновешивания безусловно ассиметрического и несбалансированного союза с Вашингтоном.

Перевод с итальянсого Элизео Бертолази

Francesco Brunello Zanitti intervistato da “Il Democratico”

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato da Eleonora Peruccacci per “Il Democratico” a proposito della sua recente opera Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicata col marchio dell’Istituto.
L’articolo originale può essere letto cliccando qui. Riproduciamo di seguito l’articolo de “Il Democratico”.

 
Francesco Brunello Zanitti/ Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto di Eleonora Peruccacci

Sempre più spesso Stati Uniti e Israele appaiono come due facce della stessa medaglia, questo perché la loro special relationship è qualcosa che va aldilà di un semplice credo politico, ma arriva quasi al trascendentale. Due nazioni distanti fra loro, per posizione e storia, ma accomunate dall’idea della propria superiorità morale, dalla convinzione che esse siano le “prescelte” e, perciò, entrambe portatrici sane di un “eccezionalismo” di fondo, abbondantemente e continuamente propagandato. Ecco perché Neoconservatori da una parte e Neorevisionisti dall’altra presentano degli elementi che li accomunano. Ma questi elementi bastano, di per sé, a legare le due nazioni? Perché, dunque, gli Stati Uniti sono vicini a un Paese così distante sia culturalmente che geograficamente? Questo è l’aspetto più interessante del libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, poiché evidenzia come gli interessi di questo legame speciale risiedano non solo in questioni “morali”, ma soprattutto economiche. La cosiddetta Israel Lobby, di cui anche Walt e Mearsheimer hanno recentemente parlato in un loro libro, è portatrice di grandi interessi (in termini di pecunia) e spinge affinché Israele non sia minacciata dagli stati arabi confinanti.

L’approccio atlantista è di sicuro effetto fra “Noi Occidentali”, grazie anche ai mezzi di comunicazione che lo supportano: Israele, dopotutto, è l’unico “baluardo occidentale” all’interno di una regione a “connotazione araba”, e noi, gli occidentali, siamo spinti a credere che la difesa di tale territorio sia prioritaria. Dopotutto, dopo la “Liberazione” del 1945, l’Europa si è sempre più sentita “in debito” con uno Stato che non ha mai nascosto il fatto di ritenersi superiore al resto del mondo: gli USA, la nazione bound to lead, ci inducono ad abbracciare e a ritenere giuste le cause che loro stessi abbracciano, anche se i motivi sono economici piuttosto che idealistici. Troppo spesso gli esperti, i vari studiosi, ma anche gli stessi mass media giocano sulla indubbia somiglianza dei concetti “antisemita” e “antisionista”, portando chi ascolta (e troppo spesso non ha conoscenza di ciò di cui si parla) a ritenere che salvare Israele significa salvare il popolo ebraico e che chi critica gli israeliani è, per partito preso, un antisemita. Gli Stati Uniti non sono da meno e, seguendo i propri enormi interessi economici (ricordiamoci che la Lobby ha al suo interno personaggi di spicco del mondo politico statunitense e non solo, e che è in grado di influenzare notevolmente i risultati elettorali all’interno della nazione), incitano l’Occidente alla salvaguardia di Israele. E lo fanno anche se ciò significa l’uccisione di centinaia di innocenti, se implica l’uso smodato della forza militare, o se va contro lo ius cogens. Come è possibile, dunque?

Il libro di Brunello Zanitti è molto interessante perché aiuta il lettore a capire non solo le origini della nascita dei due movimenti politici di riferimento, ma anche perché si addentra nelle dinamiche che la nascita di tali partiti ha creato, offre spiegazioni puntuali rispetto ad avvenimenti storici del passato e apre la strada all’interpretazione dei nuovi possibili scenari futuri.

 
Il tuo libro è molto interessante perché delinea degli elementi comuni fra due movimenti politici distanti fra di loro, non solo geograficamente ma anche ideologicamente. Da una parte un movimento che nasce dalla sinistra democratica disillusa, dall’altra vediamo un movimento ultraconservatore. Come mai hai voluto concentrare la tua analisi su questo argomento? C’è stato qualche particolare elemento o avvenimento, più o meno recente, che ti ha spinto ad approfondire questo tema e a elaborare la tua tesi?

La scelta di questo argomento è dovuta al mio interesse per il conflitto tra israeliani e palestinesi, contraddistinto storicamente da un particolare ruolo svolto dagli Stati Uniti. Alcuni avvenimenti recenti mi hanno spinto ad approfondire questa tematica, ad esempio l’intervento statunitense contro l’Iraq nel 2003 e, pochi anni dopo, la guerra tra Israele e Libano del 2006, così come l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza tra dicembre 2008 e gennaio 2009. In tutti questi eventi di guerra riscontravo una certa somiglianza e una medesima “giustificazione morale”, nonostante i contesti diversi. Gli interventi militari furono favoriti dai gruppi politici al potere a quell’epoca, neoconservatori negli Stati Uniti e destra israeliana neorevisionista nello Stato ebraico. A questo proposito, prendendo spunto da alcuni articoli di autori israeliani e statunitensi che già avevano analizzato le possibili similitudini tra i due movimenti, su tutti, come ricordo nel libro, l’articolo di Ilan Peleg e Paul Scham Israeli Neo-Revisionism and American Neoconservatism: The Unexplored Parallels pubblicato nel 2007 sul “The Middle East Journal”, ho messo a confronto neocons e rappresentanti del Likud, soprattutto per quanto riguarda l’adozione di simili procedure in politica estera. Fermo restando che siano esistiti medesimi obiettivi, soprattutto negli ultimi anni, non ho presentato un disegno cospiratorio o un comune progetto politico. A questo proposito ho utilizzato numerosi articoli, pubblicati nel periodo che va dagli anni ’70 al 2000, nei quali si può individuare il pensiero degli appartenenti a queste correnti. Ho analizzato anche le idee degli intellettuali che successivamente non hanno ricoperto cariche pubbliche nei rispettivi Paesi, ma senza dubbio il loro pensiero politico ha influito decisamente nelle successive scelte in politica estera. La rivista dei neoconservatori “Commentary” è stata fondamentale per comprendere le idee dei due gruppi, diverse a seconda dei contesti storici, la maggior parte delle quali sono state messe coerentemente in pratica, soprattutto tra il 2001 e il 2008.

Vorrei comunque ricordare che un altro aspetto che mi ha spinto ad approfondire l’analisi di questi due movimenti sono stati l’avversione e i pregiudizi che percepivo nei confronti dei musulmani, causati soprattutto dagli eventi dell’11 settembre, ma in generale verso le culture diverse da quella occidentale. Il tema dello “scontro tra civiltà”, paradossalmente favorito dagli stessi neocons a causa della loro ideologia fortemente intrisa da interventismo ad ogni costo (economico e militare), così come dalla percezione di minacce continue, è un aspetto che considero molto importante. Questi due gruppi, non tenendo conto delle differenze culturali e se effettivamente una determinata società ha il desiderio di adottare particolari sistemi di stampo occidentale, hanno favorito questo “scontro” per motivazioni di carattere geopolitico ed economico, nascoste da giustificazioni di tipo morale per il diritto-dovere statunitense e occidentale di esportare il modello corretto e legittimo di società.

Nella tua analisi mi ha colpito il riferimento che fai alla cosiddetta “lobby ebraica”. Se ne è sentito parlare abbastanza di recente con il libro, a cui tu peraltro fai riferimento, di Walt e Mersheimer. Come loro, anche tu abbracci l’idea che questa lobby influenza la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filoisraeliana. Fino a che punto ritieni che questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché? Si può affermare che il suo ruolo si è evoluto?

Il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Esiste anche la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del Paese in Vicino Oriente e ha naturalmente un importante peso in termini elettorali. Nonostante sia una lobby molto potente e organizzata che pubblicizza le proprie azioni, non ritengo sia l’unico gruppo di pressione o il più importante, ma in ogni caso il suo ruolo si è evoluto nel tempo. L’appoggio statunitense nei confronti d’Israele, soprattutto a partire dagli anni ’60 è spiegato in diversi modi e la lobby ha avuto in questo senso un ruolo fondamentale. Nel contesto della Guerra Fredda, lo Stato ebraico rappresentava strategicamente gli interessi del blocco guidato dagli Stati Uniti in Vicino Oriente, contenendo l’ascesa sovietica nell’area, una zona vitale per gli interessi energetici. Israele era considerato un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti al comunismo, nonostante l’Unione Sovietica abbia favorito la nascita del paese nel 1948; il legame tra URSS e Israele entrò in crisi per la sempre più stretta relazione israelo-statunitense e per il rapporto privilegiato che Mosca stabilì con alcuni Stati arabi. Nonostante il rapporto di special relationship tra Israele e Stati Uniti, ci sono stati momenti storici in cui alcune amministrazioni statunitensi non hanno avuto una linea totalmente filo-israeliana, come avvenuto durante l’epoca di maggiore influenza neoconservatrice. Fino agli ’70 la comunità ebraica statunitense era tradizionalmente vicina a posizioni liberal più che all’universo rappresentato dal Partito Repubblicano; i neocons criticarono proprio la scarsa politica filo-israeliana del Partito Democratico e per questo motivo si spostarono verso i repubblicani di Ronald Reagan. Esistono altre motivazioni di tipo morale, accentuate dai neocons: si ritiene che Israele sia una democrazia, moralmente superiore ai paesi arabi e circondata da una serie di nemici intenzionati a distruggerlo; Israele condivide i medesimi valori occidentali ed esistono, inoltre, motivazioni di carattere religioso da non sottovalutare. Negli Stati Uniti i sionisti cristiani ritengono necessario un concreto sostegno a Israele poiché la Bibbia attesta l’esistenza dello Stato ebraico come volontà divina.

La seconda comunità ebraica a livello mondiale risiede negli Stati Uniti e anche per questo motivo esercita una considerevole pressione politica. Sarà interessante valutare come agirà Obama in questi mesi in vista delle elezioni del prossimo anno.

Nella tua analisi delinei, con riferimenti ad avvenimenti storici più o meno recenti, quali sono le caratteristiche di questa special relationship fra i due Paesi e come tale rapporto è nato. Questa situazione sembra essersi ben consolidata nel tempo. Quindi, spostandoci alla situazione attuale, come descriveresti i rapporti reciproci fra le due nazioni, in che modo credi che influenzino gli equilibri geopolitici odierni e futuri, e come ritieni che i due movimenti leggano e, eventualmente, influenzino lo scenario politico?

I rapporti tra i due Paesi sono ottimi, testimoniati dalla recente condanna statunitense nei confronti della dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Palestina all’ONU. Gli Stati Uniti hanno anche votato contro la presenza della stessa Palestina nell’Unesco.

Nonostante ciò, visto il declino geopolitico degli Stati Uniti e il confronto sempre più aperto con nuovi attori emergenti, in particolare la Cina, in alcuni casi esistono delle visioni in politica estera che sembrano essere discordanti, se si pensa, ad esempio, alle rivolte arabe. Esistono delle pressioni occidentali per l’emergere delle sommosse popolari, pur esistendo un malcontento generale all’interno dei paesi arabi. In questo contesto gli interessi israeliani potrebbero essere messi in discussione, poiché sono stati modificati alcuni scenari che garantivano lo status quo regionale favorevole ad Israele. Questo aspetto è evidente soprattutto per quanto riguarda l’Egitto nel caso in cui prevarranno le componenti islamiste del panorama politico egiziano. Un altro aspetto importante riguarda la Turchia, Paese della NATO e alleato di primo piano degli Stati Uniti nell’area. Washington sta tentando di ricucire i rapporti tra i due alleati, i quali competono per la supremazia geopolitica nell’area. Per quanto riguarda Ankara, si parla recentemente di un possibile intervento in Siria, sostenuto dalla NATO, colpendo allo stesso tempo gli interessi iraniani. Il problema, in ottica israeliana, è il potenziale aumento d’influenza turca nell’area ai danni dello Stato ebraico, il quale osserva negativamente alcuni risvolti del nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente. Il modello politico turco per le rivolte arabe potrebbe invece essere favorito da Washington.

Israele e Stati Uniti hanno invece una comune percezione della minaccia iraniana, ma lo Stato ebraico sembra più evidentemente propenso all’intervento militare preventivo e unilaterale rispetto all’alleato nordamericano. Nonostante le sanzioni imposte recentemente da Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, un ipotetico intervento militare è improbabile vista l’avversione dei sempre più influenti BRICS. In ogni caso, il nucleare iraniano è una prospettiva sgradita per l’aumento di potere deterrente dell’Iran nei confronti di Stati Uniti e Israele; allo stesso tempo sarebbe una sfida inaccettabile per l’Arabia Saudita nella contemporanea competizione tra sunniti e sciiti nell’area, nonché una mossa che potrebbe generare una corsa al nucleare in altri Stati del Vicino Oriente.

Per quanto riguarda l’influenza politica dei due movimenti, ritengo che il neorevisionismo, essendo ancora al potere, mantenga la sua costante influenza. Nonostante abbia messo in crisi con la sua ideologia l’asse turco-israeliano, potenziale danno per gli stessi Stati Uniti poiché elemento importante nella concezione geopolitica dell’area da parte statunitense, la radicalizzazione dell’area, vista la situazione in Egitto e in generale nel mondo arabo, così come un eventuale aumento delle tensioni con l’Iran potrebbero comportare il rafforzamento di posizioni più intransigenti e radicali nella società israeliana. Dunque, i partiti della destra hanno buone probabilità di mantenere il potere, nonostante ci siano dei movimenti interni contrari alle politiche di Netanyahu, soprattutto in campo economico.

I neoconservatori, in particolare dopo l’intervento in Iraq, sono in una fase di declino e per le elezioni del 2012 non sembra che il futuro leader che rappresenterà il Partito Repubblicano, visti gli attuali candidati, sarà legato al movimento. L’influenza neoconservatrice è in deciso calo, ma senza dubbio è stato valutato positivamente dai neocons l’intervento militare in Libia. Allo stesso tempo però viene richiesta una decisa azione militare contro Siria e Iran, così come una politica più aggressiva nei confronti della Cina.


Geopolitica. La nuova rivista dell’IsAG

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L’IsAG, col nuovo anno, ha scelto di rafforzare ed ampliare il suo strumento principe. A partire dal 2012 pubblicheremo la nuova rivista ufficiale dell’IsAG, con una moderna veste grafica (vedi a destra la bozza della copertina del primo numero). Si chiamerà GEOPOLITICA. Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie.

Ci sono alcune cose che però non intendiamo cambiare con questa rivista: il rigore scientifico, l’attenzione centrata sugli scenari a lungo termine, la collaborazione di rinomati studiosi da tutto il mondo. Tutte queste caratteristiche saranno garantite dagli elementi di continuità con la passata esperienza: la direzione di Tiberio Graziani e Daniele Scalea, il lavoro redazionale della squadra di ricercatori dell’IsAG, il Comitato Scientifico composto da esperti internazionali d’alto livello.

La finalità di GEOPOLITICA è la stessa che è alla base dell’esistenza dell’IsAG: diffondere lo studio della geopolitica e stimolare in Italia un ampio e de-ideologizzato dibattito sulla politica estera del nostro paese.

Noi non intendiamo la geopolitica come un semplice sinonimo di “Relazioni internazionali”, ma come una disciplina a se stante. Per la precisione, come un approccio inter-disciplinare alle relazioni internazionali (ed all’interazione tra società umane in genere) che coinvolge le scienze geografiche, storiche, economiche, etnografiche e strategiche. Noi intendiamo la geopolitica come l’analisi delle relazioni internazionali che tiene conto dei fattori geografici, economici, strategici ed antropologici e li verifica con metodo storico. Siamo convinti che questo tipo d’approccio permetta analisi più profonde e previsioni di più lungo periodo. E che esso meriti di trovare un posto di primo piano all’interno del mondo accademico e dei decisori strategici, un posto che attualmente non gli è riconosciuto.

La valorizzazione della geopolitica, così come da noi descritta, non può che portare ad un generale ripensamento della politica estera e della “grande strategia” dell’Italia. Non è solo una questione di approccio analitico, ma anche di adattamento alla nuova realtà storica. La fase unipolare sta terminando e cedendo il passo ad un nuovo ordine multipolare che avanza a grandi falcate. I comportamenti degli Stati e dei popoli in questa fase di transizione deciderà del loro posizionamento e ruolo nel nuovo ordine. L’adozione d’una prospettiva errata, e di atteggiamenti inadeguati, influirà negativamente sul futuro dell’Italia e degl’Italiani per molti decenni. Le vecchie ortodossie atlantiste e le anacronistiche rigidità ideologiche occidento-centriche sono inadeguate alla nuova realtà. È per questo che riteniamo necessario che in Italia si sviluppi un dibattito ampio, libero ed informato sulle nostre future scelte strategiche e di politica estera.

È proprio con questa funzione di stimolo del dibattito all’interno della comunità degli addetti ai lavori e della società civile in generale che l’IsAG continuerà, oltre a pubblicare GEOPOLITICA ed a mantenere un sito d’informazione internazionale, ad organizzare convegni e seminari in giro per l’Italia ed a curare altre pubblicazioni.

Tutto questo è possibile solo grazie agli sforzi volontari d’un gruppo di studiosi che credono nella missione dell’IsAG, e che operano gratuitamente e senza tornaconto economico; è possibile grazie alle donazioni in denaro dei soci e dei benefattori che desiderano aiutarci a realizzare la nostra missione. L’IsAG è infatti un’associazione di promozione sociale senza scopo di lucro. Ecco perché vi chiediamo di aiutarci: vi chiediamo di aiutarci acquistando la nuova rivista GEOPOLITICA e le altre nostre pubblicazioni, associandovi all’IsAG, donando aiuti finanziari o prestando le vostre competenze, capacità e buona volontà al nostro Istituto.

Chiudiamo dandovi appuntamento con la nuova rivista GEOPOLITICA per marzo 2012, quando è programmato il primo numero monografico dedicato ai vent’anni della Federazione Russa. Ci auguriamo di ritrovarvi tutti tra i suoi lettori!

Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica”)
Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG e co-direttore di “Geopolitica”)

VISITA IL SITO DELLA RIVISTA (clicca qui)

F. Brunello Zanitti presenta il suo libro “Progetti di egemonia” all’IRIB italiana

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 26 dicembre da Radio Italia dell’IRIB a proposito del suo recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicato sotto l’égida dell’IsAG. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

Il dottor Brunello Zanitti è ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale e autore del libro “Progetti di egemonia”. Ci potrebbe spiegare quali sono i temi principali trattati nel suo libro?

Il libro considera un particolare aspetto della speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, due gruppi politici molto influenti nei rispettivi paesi, ma che hanno delle origini molto diverse. La speciale relazione tra Stati Uniti e Israele è stata particolarmente enfatizzata dai protagonisti di questi due movimenti, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. Prendendo spunto da alcuni articoli e saggi scritti da autori israeliani e statunitensi che hanno già considerato questo particolare aspetto, il mio libro analizza le principali differenze per quanto riguarda le origini storiche ed ideologiche dei due movimenti, ma anche i difformi retroterra culturali. L’obiettivo fondamentale è la ricerca delle principali similitudini, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e il ruolo che Stati Uniti e Israele dovrebbero ricoprire a livello mondiale e regionale. Nella mia analisi ho esaminato alcuni aspetti che accomunano questi due gruppi. Ad esempio, un forte nazionalismo, molto più marcato nella destra israeliana, ricordando che il neorevisionismo si collega strettamente al Likud attualmente guidato da Netanyahu. Ci sono poi delle tendenze espansionistiche e militariste molto forti, connesse a un’idea di egemonia mondiale per quanto riguarda gli Stati Uniti e un’idea di egemonia regionale per quanto concerne il neorevisionismo israeliano. Inoltre, c’è una considerazione molto importante che riguarda l’eccezionalismo dei propri paesi rispetto alle altre nazioni, l’idea che Stati Uniti e Israele ricoprano una sorta di compito nell’insegnare alle altre nazioni il corretto sistema politico da adottare. Questo aspetto è collegato all’ideale di esportazione della democrazia, principio molto significativo nel neoconservatorismo americano. Un altro fattore rilevante è l’utilizzo della guerra preventiva, enfatizzata dai neoconservatori soprattutto durante l’intervento in Iraq nel 2003 da parte degli Stati Uniti. Questo ideale di guerra preventiva è connesso alla presenza costante di un nemico. Il neoconservatorismo si sviluppa negli anni ’70 negli Stati Uniti, periodo in cui il nemico era naturalmente il comunismo e l’Unione Sovietica, mentre durante gli anni ’90 e 2000 questo nemico si è trasformato diventando il terrorismo internazionale e i cosiddetti “Stati canaglia” che sponsorizzano il terrorismo di matrice islamica. Per quanto riguarda invece Israele il nemico è sempre stato il mondo arabo e i movimenti palestinesi. Queste costanti minacce a livello mondiale portano i neoconservatori e i neorevisionisti a considerare l’epoca contemporanea simile a quella degli anni ’30, paragonandola al 1938 con possibili ripetizioni di nuove guerre mondiali, da evitare, favorendo non solo una maggiore presenza politica interna dei due gruppi politici negli Stati Uniti e in Israele, ma anche adottando una decisa politica estera, aggressiva e nazionalista.

Se non sbaglio lei evidenzia come gli interessi di questo speciale legame risiedano non solo in questioni morali ma soprattutto in questioni economiche. Giusto?

Sì, anche economiche e geopolitiche. Naturalmente il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Questo fattore è sempre stato presente nella storia degli Stati Uniti. A livello economico è molto importante la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del paese, non dimenticando che la comunità ebraica negli Stati Uniti è la seconda più importante dopo quella d’Israele. Quindi anche la minoranza ebraica nel paese ha un certo peso e si può osservare come la politica estera statunitense sia legata appunto a collegamenti di tipo morale, ma anche economico. Israele è sempre stato considerato nel Vicino Oriente un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti prima al comunismo durante il periodo della Guerra Fredda; in seguito e anche nella fase attuale contrapposto al terrorismo internazionale collegato a motivi di carattere religioso. Nel mio libro considero il fatto che questi elementi siano utilizzati per difendere degli interessi geopolitici ed economici, vista e considerata l’importanza fondamentale dal punto di vista geopolitico dell’area vicino-orientale, se si fa riferimento alle risorse di idrocarburi e alla zona di collegamento tra tre continenti, Asia, Africa ed Europa, rappresentata dal Vicino Oriente.

Lei nella sua analisi fa riferimento alle lobby ebraiche, cioè all’idea che questa lobby influenzi la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filo-israeliana. Ci potrebbe spiegare fino a che punto questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché?

La lobby ebraica è una dei gruppi di pressione politica che esistono negli Stati Uniti; però, secondo la mia opinione, non ha avuto un ruolo costante nel tempo. Ad esempio per quanto riguarda alcune epoche storiche degli Stati Uniti, la lobby ebraica si è fatta sentire in maniera diversa. Durante l’epoca neoconservatrice, il legame tra Stati Uniti e Israele si è fatto decisamente sentire e lo abbiamo visto nell’intervento statunitense in Iraq e poi anche nella difesa costante da parte di Washington delle azioni israeliane durante l’intervento in Libano o la guerra contro Gaza tra 2008 e 2009. Però ci sono stati dei periodi storici in cui questo collegamento si è fatto meno sentire. In un certo senso, secondo la mia opinione, alcuni aspetti delle rivolte arabe andrebbero analizzati in maniera più approfondita perché non vedo come l’attuale politica estera statunitense che sembra appoggiare le rivolte arabe possa giovare ad Israele, se si pensa al caso egiziano, dove lo status quo favorevole in un certo senso allo Stato ebraico è stato perso. Un altro caso riguarda l’allontanamento turco-israeliano; la Turchia è un importante alleato degli Stati Uniti nell’area; in questo periodo invece i rapporti tra Israele e Turchia sono in una fase molto delicata. Lo Stato ebraico osserva negativamente il nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente, mentre il modello turco potrebbe essere visto favorevolmente da Washington per il seguito delle rivolte arabe.

Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui.

Il 2011, l’anno delle rivolte arabe: Daniele Scalea all’IRIB

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Daniele Scalea, co-direttore di GEOPOLITICA e segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia dell’IRIB (Islamic Republic International Broadcasting) a proposito degli eventi più significativi dell’anno appena passato. Il direttore Scalea ha evidenziato un evento in particolare, le rivolte arabe, sia per la loro importanza oggettiva, sia per la sensazione suscitata nel mondo.
La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito l’audio e la trascrizione integrale dell’intervista. (Per altro materiale audio-video, raccomandiamo di visitare ed iscriversi al nostro canale YouTube [clicca]).

 

 
Signor Scalea, dal momento che ci troviamo alla fine dell’anno, potrebbe farci un’analisi sugli ultimi sviluppi del mondo?

Di sicuro l’evento più notevole – quello che ha attirato anche più attenzione – sono state le rivolte arabe. Si è trattato in realtà di un ciclo di eventi che ha coinvolto in maniera più o meno profonda tutti i paesi del mondo arabo, e che ha destato molta sensazione anche perché era quasi totalmente inatteso. Fino al 2010 questi paesi apparivano immobili, stagnanti, e quello delle “masse arabe” un mito destinato a non concretizzarsi mai. Invece abbiamo visto cos’è successo nel 2011, e l’attenzione del mondo si è concentrata su questa regione anche per la sua evidentissima importanza strategica, dal momento che ospita una gran parte delle risorse energetiche mondiale.
Diversi commentatori hanno cercato di dare un’interpretazione ai fatti, e presto si è lanciato lo slogan, palesemente celebrativo, della “Primavera araba”, dipinta come un risveglio delle nazioni e dei popoli. Questo risveglio c’è stato, ma siamo ancora in una fase interlocutoria a ben vedere: le rivoluzioni non si sono ancora realizzate appieno. Prendiamo il caso dell’Egitto dove, a mesi di distanza dalle dimissioni di Mubarak, abbiamo ancora un regime di tipo militare e manifestanti ancora in piazza. Anche in Tunisia abbiamo una sorta di regime di transizione. Non è un caso che in tutti quei paesi dove, nominalmente, si sarebbe avuta una “rivoluzione”, una parte della società continua ancora a scendere in piazza e rumoreggiare. Insomma, non sappiamo ancora dove arriverà questa “Primavera araba”. Non dimentichiamoci che la “Primavera europea”, quella del 1848, fu un ciclo rivoluzionario fallimentare, almeno nel breve termine: quasi tutte le rivoluzioni furono presto riassorbite. Non credo che questo sarà totalmente il caso del mondo arabo, ma bisogna comunque tenere conto di questa possibilità.
Nei media occidentali soprattutto si è poi dato molto spazio a quest’interpretazione “romantica” delle rivolte arabe, come fenomeno dovuto all’attività dei giovani collegati tramite i social networks e Internet, desiderosi d’avere democrazia e società modellate sull’esempio occidentale, postmoderno – quindi democrazie liberali parlamentariste, libero mercato, liberalizzazione dei costumi. Tutta questa dimensione è stata plausibilmente presente (ad esempio il ruolo avuto dai social networks nell’organizzazione delle primissime manifestazioni, o le frange liberali ed occidentaliste della società araba), ma la realtà che sta ora emergendo in tutta la sua chiarezza, coi primi risultati elettorali in Marocco, Tunisia ed Egitto, è quella di un “risveglio islamico”. Questo ciclo di rivolte s’inserisce nella dinamica più ampia dell’ascesa del “Islam Politico”, o “islamismo”, a fronte del declinare inesorabile dei regimi e delle ideologie laiche e nazionaliste, che avevano rappresentato il mondo arabo in tutta la fase post-coloniale, anche con una certa vitalità fino agli anni ’70 (salvo degenerare dopo la morte di Nasser ed il fallimento della guerra del 1973). Il fatto che le rivolte arabe andassero inserite in questa dinamica di lungo periodo è un qualcosa di cui pochi si sono accorti in Occidente inizialmente. Mi permetto di notare che uno studio che ho realizzato assieme al mio collega dell’IsAG Pietro Longo, che s’intitola Capire le rivolte arabe ed è stato pubblicato in aprile, è stato uno dei primi libri a mettere in luce quest’altra dimensione prevalente, quella dell’islamismo come chiave di lettura delle rivolte arabe.
Non possiamo però limitarci a valutare la dimensione interna del fenomeno, ma dobbiamo guardare anche a quella esterna, ossia all’influenza avuta dalle potenze extra-regionali sugli avvenimenti. Quest’influenza è stata palese in eventi come quello libico o siriano, un po’ meno evidente ma non assente in Egitto. Qui, come in altri paesi, gli USA, pur continuando ad appoggiare i regimi in carica, sono riusciti ad insinuarsi nell’opposizione e nella società civile, di modo da avere referenti in entrambe le parti e cercare d’uscire comunque vincitori dai rivolgimenti. Da questo fatto derivano anche tesi più estreme, secondo cui tutte le rivolte sarebbero una manovra nell’ombra degli USA per realizzare il progetto del “Grande Medio Oriente”.
La guerra in Libia introduce un altro tema, che è quello dell’Africa. La Libia è il paese che si era fatto promotore dell’Unione Africana, il più ricco del continente per reddito pro capite e risorse. Non a caso è stata la vittima designata d’una rivoluzione che, tra tutte quelle arabe, appare la più etero-diretta, la più promossa dall’esterno. Tant’è vero che non avrebbe avuto successo senza l’intervento della NATO e di altri paesi, soprattutto della Penisola Arabica. Il conflitto libico si può leggere in due modi. Innanzi tutto, un tentativo degli USA e della NATO di respingere la crescente influenza cinese in Africa. Ecco quindi che l’attacco alla Libia assume una nuova luce in rapporto ad altri episodi: l’intervento francese in Costa d’Avorio, quello statunitense in Somalia, l’istituzione di AFRICOM, un comando militare della NATO riservato al teatro africano.
La seconda chiave di lettura del conflitto libico ci porta alle dinamiche interne alla NATO, ed al maggior ruolo che gli USA stanno accordando agli alleati “subalterni”, come la Francia, la Gran Bretagna e la Turchia. Gli USA attraversano una fase di crisi economica, e nel tentativo di mantenere la loro egemonia ricorrono ad un espediente già adottato in passato (vedi il dopo-guerra in Vietnam): affidarsi a potenze intermedie regionali come “stampelle” della loro preponderanza globale. Ovviamente il rovescio della medaglia è che a queste potenze vanno lasciati degli spazi di autonomia che prima non c’erano, e ciò alla lunga può rivelarsi controproducente: crea infatti tutta una serie di tensioni all’interno del blocco atlantico, come quella tra Francia e Turchia, entrambe in cerca d’un ruolo egemonico nel Mediterraneo. La Turchia si è schierata contro il governo in Libia solo quando ha capito che i Francesi sarebbero riusciti a promuovere una guerra che avrebbe rovesciato Gheddafi; così come il cambiamento radicale della politica turca verso la Siria è avvenuto più o meno in concomitanza con l’attacco alla Libia, presumibilmente anche per anticipare un prevedibile intervento francese contro Damasco.

Portaerei USA nel Golfo Persico: Tiberio Graziani all’IRNA

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato intervistato dall’IRNA (agenzia di stampa ufficiale della Repubblica Islamica d’Iran) a proposito delle recenti tensioni tra Tehran e Washington, in particolare in relazione al transito d’una portaerei statunitense nel Golfo Persico.
Interpellato dall’agenzia iraniana, Graziani ha notato come l’evento s’inserisca nel quadro della destabilizzazione dell’area che, ormai da un decennio, gli USA portano avanti assieme a Francia e Gran Bretagna.
Il lancio d’agenzia è consultabile cliccando qui.

“Primavera araba” o “risveglio islamico”? D. Scalea a Cagliari

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e con-direttore di Geopolitica, è stato ospite delle associazioni culturali “Caravella” e “Vico San Lucifero” alla conferenza “Primavera araba” o “risveglio islamico”?, svoltasi a Cagliari venerdì 20 gennaio 2012, alle ore 18.30, presso il Centro Iniziative Sociali di Piazza del Carmine 4.

Moderata da Federica Poddighe, la conferenza ha visto Daniele Scalea, co-autore di Capire le rivolte arabe, intervenire e dibattere col pubblico sul tema. Presenti nella sala gremita circa ottanta persone, che hanno partecipato ponendo numerose domande.

L’evento è stato coperto dai principali media locali. “L’Unione Sarda” e “Sardegna 24″ hanno segnalato la conferenza, mentre Videolina ha inviato una troupe per filmare alcuni minuti della conferenza e realizzare un’intervista al segretario Scalea.

Di seguito, alcune foto dell’evento:

 

Daniele Scalea e Federica Poddighe

Daniele Scalea e Federica Poddighe


Federica Poddighe introduce il relatore

Federica Poddighe introduce alla conferenza


Il pubblico in sala

Il pubblico in sala


Daniele Scalea intervistato da Videolina

Daniele Scalea intervistato da Videolina


Daniele Scalea intervistato da Videolina

Daniele Scalea intervistato da Videolina

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