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Channel: Progetto Condor – Pagina 27 – IsAG // Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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Rivolte arabe: P. Longo e D. Scalea intervistati dall’ASI

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Daniele Scalea e Pietro Longo, rispettivamente segretario scientifico e ricercatore presso l’IsAG, autori del libro Capire le rivolte arabe, sono stati intervistati dall’Agenzia Stampa Italia. Di seguito la riproduzione dell’articolo pubblicato dall’ASI (per l’originale cliccare qui).

 
(ASI) In questi mesi Agenzia Stampa Italia ha ovviamente dedicato ampio spazio alle rivolte scoppiate nel basso Mediterraneo offrendo spesso delle visioni molto diverse da quella ufficiali e politicamente corrette offerte dei media embedded.Questa volta per dare ai nostri lettori una visione ancora più precisa abbiamo incontrato due esperti di geopolitica: Daniele Scalea e Pietro Longo che proprio di recente hanno pubblicato, per le Edizioni Avatar, il saggio “Capire le rivolte arabe – Alle origini del fenomeno rivoluzionario”.

Ne è nata una piacevole chiacchierata che sicuramente aiuterà tutti a comprendere meglio cosa sta accadendo a due passi da casa nostra.

1) Di recente avete pubblicato il saggio “Capire le rivolte arabe”. In merito a quello che i media embedded chiamano primavera araba effettivamente c’è molto da capire; secondo voi perché il malcontento di quell’area è nato proprio in questo determinato periodo?

Daniele Scalea: Ovviamente il malcontento non è nato in questo periodo, ma è il riflesso d’una situazione di crisi degli Stati arabi che va avanti ormai da decenni. I governi nazionalisti del dopoguerra non hanno avuto fortuna nel promuovere la modernizzazione economica dei loro paesi, rimasti ancorati – per quei fortunati che le possiedono – all’esportazione di materie prime. Non sono riusciti a realizzare l’unità panaraba, ma si sono accapigliati tra loro. Non hanno sconfitto il comune nemico, Israele, ma hanno finito col farci la pace dopo varie guerre perse. Di tante promesse è rimasta, quasi sempre, solo una realtà di arretratezza e autoritarismo cleptocratico, anche se ovviamente qualche governo potrebbe ben rivendicare di costituire l’eccezione, ed aver fatto il bene del proprio popolo. Ma è comunque questo il clima in cui l’Islam Politico – un fenomeno di cui si parla solo da pochi anni, ma che affonda le sue radici ad anni anteriori allo stesso nazionalismo panarabo – ha conquistato i cuori e le menti di molti arabi. E’ probabile che oggi il cosiddetto “islamismo” sia l’ideologia più rappresentativa nella regione.
Perché questo malcontento di lungo periodo è esploso proprio all’inizio del 2011? Credo vi siano diversi fattori da tenere in conto. Il primo è quello, forse poco scientifico ma molto reale, del “caso”. Una rivolta è esplosa in Tunisia, ha avuto successo e tutte le opposizioni nel mondo arabo hanno pensato d’imitarla. Il secondo fattore è legato alla congiuntura economica internazionale: un panorama di crisi globale, la minore capacità dei paesi europei d’assorbire lo sfogo dell’emigrazione araba, e la speculazione che ha gonfiato il prezzo dei beni alimentari. Ciò ha reso economicamente insostenibili le condizioni di vita in molti paesi arabi. Il terzo fattore è quello inerente il grande gioco delle potenze mondiali. Alcune hanno soffiato sul fuoco della rivolta. Gli USA da anni parlano di “democratizzazione” del “Grande Medio Oriente”, anche se finora erano stati molto cauti proprio per timore di veder trionfare gl’islamisti. Ma nel frattempo hanno investito nelle “società civili” di quei paesi e vi hanno insinuato ONG e movimenti politici che sono stati tra i protagonisti della rivolta. Probabilmente, percependo l’insostenibilità delle dittature “laiche”, o “moderate”, come erroneamente si era solito chiamarle, Washington ha deciso di favorire l’ascesa dell’Islam Politico per ingraziarselo. Zbigniew Brzezinski aveva apertamente invitato a cavalcare la tigre del “global awakening”, senza lasciarsi intimidire dal suo carattere anti-statunitense.

Pietro Longo: Il malcontento nei paesi arabi ha radici molto più profonde ovviamente ed il fatto che le rivolte siano scoppiate in questo momento storico potrebbe benissimo essere casuale. Del resto movimenti di protesta in Bahrein o in altri paesi del Golfo, ma senza andare troppo lontano, anche in Giordania e in nord-africa, sono esplosi anche nell’anno precedente a questo anche se i media non ne hanno parlato. I regimi arabi sono catalogati da tutti gli istituti di ricerca (come Freedom House, con tutte le riserve del caso) come “non liberi”, ovvero come dei sistemi basati su forme più o meno sofisticate di autoritarianesimo. A proposito dell’Oman molti accademici hanno parlato di “sultanismo” a significare un modello politico basato su un rapporto diretto del leader con il popolo, quasi una sorta di paternalismo-populismo. Cosa implica questo? Implica che i governanti al potere (siano essi le dinastie del golfo o i Presidenti dei sistemi Repubblicani) amministrano i rispettivi territori come fossero dei possedimenti privati. Certo ci sono gradi diversi di inclusione e partecipazione politica e società più o meno aperte (non sono la stessa cosa l’Egitto e l’Oman ad esempio) ma il concetto alla base è la costante necessità di rinnovare la “legittimazione” agli occhi del popolo. I leader delle generazioni passate, si pensi a Nasser, riuscivano a rinnovare costantemente questo bisogno attraverso la mobilitazione delle masse e in questo l’ideologia giocava un ruolo fondamentale. Oggi gli autocrati non fanno più presa sulle masse e sono costretti a ricorrere ad espedienti di “democrazia difensiva” cioè a fare concessioni, lente e graduali, per ri-legittimarsi. Di tanto in tanto qualcosa può andare storto: le congiunture macro-economiche possono giocare a sfavore, gli eventi di politica estera e le relative scelte possono de-legittimare i governi dopo tanta fatica per ricostruire il consenso…ed è li che esplodono le rivolte….come abbiamo scritto nel saggio, le rivolte sono esplose in questo momento probabilmente per la fusione compresente di elementi endogeni ed elementi esogeni che le hanno rese possibili.

2) In questi mesi pur di difendere la tesi degli interventisti abbiamo visto che i media hanno preso degli abbagli colossali; l’ultimo esempio in ordine di tempo il presunto rapimento di una fantomatica blogger siriana che in seguito si è scoperta essere un uomo, per giunta statunitense, che aveva inventato di sana pianta la vicenda. A vostro parere perché le “grandi democrazie occidentali” hanno tutto questo bisogno di ricorrere a simili menzogne se si muovono spinte da un bene superiore?

DS: La propaganda è probabilmente nata quando l’uomo ha cominciato a comunicare coi propri simili. Nella vita di tutti i giorni, capita che le persone raccontino ad amici, conoscenti o altri interlocutori una versione tendenziosa di un determinato fatto: nel loro piccolo stanno facendo “propaganda”. Gli Stati hanno a disposizione una grancassa mediatica assai superiore a quella d’una singola persona che chiacchiera col vicino. Le invenzioni degli ultimi secoli – stampa, telegrafo, radio, televisione, cinema, Internet ecc. – hanno decuplicato questa potenzialità. I media informativi si sono sviluppati parallelamente al declino dei tradizionali media sociali – fossero essi il gruppo parrocchiale, la corporazione di mestiere, la sezione di partito o la semplice piazza del villaggio. In una società sempre più atomizzata, i media informativi diventano l’interlocutore principale di tanti singoli scollegati tra loro, e finiscono per diventarne il tessuto connettivo. I media sono diventati la società, o quanto meno il tessuto sociale che lega gl’individui. Da questo rapporto esclusivo ed onnipervasivo deriva la loro potenza, la loro capacità senza precedenti di comunicare, ma anche manipolare, la realtà.
In tal modo, le minoranze organizzate che controllano i media hanno un vantaggio decisivo nella società, anche (anzi soprattutto) in quella democratica: ci si può ricollegare al discorso elitista di un secolo fa. Se si vuole riprendere il controllo della cosa pubblica, servono cittadini acculturati e ben informati – ossia, che si muovano autonomamente per cercare davvero quel sapere e quell’informazione che oggi vengono offerti a tutti, ma in maniera scadente o contraffatta. Tanto tempo fa il ceto operaio anelava alla cultura, perché riteneva che il sapere garantisse la promozione sociale, permettendo di comprendere ciò che accadeva nel mondo e quindi d’influire su di esso. Oggi che la parola “cultura” è troppo spesso abbinata a quella “industria”, e la parola “istruzione” a quella “pezzo di carta”, bisognerebbe davvero riscoprire il valore del sapere fine a se stesso, ossia fine al miglioramento dell’individuo e del cittadino.

3) Il primo paese ad essere interessato dai tumulti di popolo è stato l’Egitto. Lì il potere è passato nelle mani dei generali che adesso dovranno rinegoziare con i paesi del corno d’Africa e della zona centrorientale dell’Africa nuovi trattati sullo sfruttamento delle risorse idriche del Nilo, ed il tutto mentre Israele torna a chiedere le risorse del bacino del Sinai.
Il nuovo governo saprà farà gli interessi del Cairo o pur di essere ulteriormente legittimato agli occhi dell’occidente farà concessioni che potrebbero rivelarsi dannose per la società e l’economia egiziana?

DS: L’Egitto è in una fase di passaggio, è difficile capire cosa farà. Il suo atteggiamento è volutamente contraddittorio, perché deve tenere a bada sia le pressioni divergenti provenienti dalle potenze estere, sia il variegato quadro politico interno. Al di là dei residui sostenitori del Partito Nazionale Democratico mubarakiano, troviamo i resti dell’establishment (spesso proprio tra le fila dell’esercito) e poi il mosaico delle opposizioni: islamisti, nasseriani, cristiani copti, comunisti, liberali, sindacalisti e così via. Attualmente, mi pare che i Fratelli Musulmani – che a dispetto di quanto detto anche da taluni esperti nei mesi scorsi, è di gran lunga il movimento più rappresentativo in Egitto – abbiano stretto un accordo sottobanco coi militari, per gestire pacificamente la transizione, senza attriti tra loro, e tagliare fuori le altre anime della rivolta. I Fratelli Musulmani permangono così nel loro rapporto ambiguo col regime: principale forza d’opposizione a Mubarak e messi fuori legge, potevano però aprire ospedali, scuole ed altre istituzioni in giro per l’Egitto.

PL: L’Egitto in questo momento si trova in una delicata fase di transizione che difficilmente può venire anticipata e letta in modo profetico e corretto. Si può ipotizzare che dopo le proteste di massa di piazza Tahrir, il popolo egiziano otterrà le riforme che chiedeva ma è lecito domandarsi se “eliminato Mubarak, sia stato eliminato anche il Mubarakismo”. Mubarak ha raggiunto il potere dopo la “parentesi” di al-Sadat, parentesi dato che il suo governo è stato interrotto dal sua assassinio. Tuttavia in quello spazio di tempo il Presidente aveva trasformato l’Egitto portandolo al di fuori dal nasserismo, ad esempio liberalizzando l’economia con il processo di infitah talvolta adeguandosi al cosiddetto Washington Consensus. Cosa c’entra questo con la presente giunta? A mio modo di vedere siamo dinnanzi ad una situazione simile e dissimile rispetto proprio alla rivoluzione degli Ufficiali Liberi. Molte cose appaiono uguali addirittura, soprattutto il fatto che a governare in questo momento sono proprio uomini in divisa. Tuttavia i fatti di Piazza Tahrir non sono stati innescati dai militari ed a ben vedere nemmeno dalla controparte islamica rappresentata dalla nebulosa dei Fratelli Musulmani. La rivolta è stata probabilmente davvero una rivolta di piazza alla quale ha fatto seguito una abile “cavalcata” da parte di militari e dei movimenti islamici. Del resto l’Egitto di oggi non è più quello di Nasser…ha una società civile molto sviluppata e dinamica, numerosi partiti e movimenti di tutti i tipi: laici e meno laici, liberali e socialisti…sono presenti i movimenti femministi e quant’altro. Ciò detto la sensazione è che i militari da un lato ed i Fratelli Musulmani dall’altro stiano negoziando il nuovo assetto del paese, forse anche esautorando altre componenti. Faccio un esempio: la Dichiarazione Costituzionale che la giunta militare ha approvato come Costituzione interinale nei mesi scorsi è stata redatta da una assemblea di pochi uomini che non hanno avuto un mandato popolare cioè non sono stati eletti dal popolo. Morale della favola erano quasi tutti militari con una componente minoritaria di “religiosi”…e le altre anime della società? Certo si può argomentare che questa Costituzione è solo interinale e che quella che seguirà sarà più rappresentativa e democratica ma per il momento l’entusiasmo tipico di ogni sommovimento popolare sembra aver incontrato uno stallo: la giunta ha approvato delle riforme cosmetiche, di democrazia difensiva appunto (come l’aver alleggerito le clausole di eleggibilità del Presidente che Mubarak aveva ritagliato addosso a sé) ma voler essere realisti, oggi in Egitto tutti i poteri sono in mano ad una giunta militare “auto poietica” cioè che si è legittimata da sola e da sola potrà decidere quando e se sciogliersi.

4) Voi siete degli esperti di geopolitica. Potete spiegare ai lettori meno preparati su questo fronte come mai la regione araba è oggi diventata il centro del mondo?

DS: In Capire le rivolte arabe dedichiamo un intero capitolo all’importanza strategica odierna del Mediterraneo arabo, ed altri due alla sua collocazione geopolitica nella storia. Ma su questo tema ci si potrebbe scrivere un libro intero. Proviamo a sintetizzare all’estremo. Primo: la regione cosiddetta del “Medio Oriente” possiede più della metà delle riserve di petrolio mondiali ed un’ampia quota di quelle di gas. Secondo: ospita una delle strettoie strategiche fondamentali, ossia il Canale di Suez. Terzo: la debolezza delle entità statuali che la abitano rende la regione particolarmente esposta alle pressioni imperialiste esterne.
Aggiungo qualche altra osservazione. a) Il Vicino Oriente si trova a cavallo tra due aree affamate d’energia: l’Europa e l’Asia Orientale. Controllare le risorse del Vicino Oriente significa controllare indirettamente i paesi europei, l’India, il Giappone e la Cina. b) Il petrolio è la fonte energetica fondamentale nella nostra epoca, e finché resta agganciato al dollaro garantisce agli USA la possibilità di stampare carta moneta a corso forzoso (cioè con solo valore nominale) ottenendo in cambio dal resto del mondo beni tangibili e servizi reali. E’ quella che Henry Liu ha definito, in maniera secondo me molto azzeccata, la “egemonia del dollaro”.

PL: La regione araba non è al centro del mondo. Il baricentro è oggi l’Asia centrale, meridionale e l’Oriente Estremo. Anzi il problema che affrontiamo in apertura del libro è proprio questo: la perduta centralità del Mediterraneo (e quindi dell’Africa e dell’Asia araba). Piuttosto la regione araba è sempre nell’occhio del ciclone, vuoi per le questioni legate al “terrorismo di matrice islamica”, vuoi per questioni legate al conflitto israelo-palestinese, vuoi per le issues di natura energetica ed in ultimo per l’ondata di democratizzazione, reale o presunta, che sta svolgendosi in questi mesi. Ma la geopolitica, come la fisica, non ammette i vuoti e quindi, diciamolo (dato che non è più o non è mai stato un mistero) anche le ingerenze esterne contribuiscono i paesi arabi a restare sempre al centro dell’arena internazionale.

5) Alcuni parlamentari statunitensi, sia repubblicani che democratici, hanno presentato una causa, presso il tribunale federale di Washington, contro il presidente Barak Obama in quanto, a loro dire, le operazioni militari in Libia sarebbero illegali non avendo ottenuto l’approvazione del Congresso. Come pensate finirà questa vicenda? La forma riuscirà a vincere sugli interessi della lobby delle armi e della missione di esportare democrazia oppure Obama ed i suoi riusciranno a trovare una scappatoia?

DS: Negli USA la politica estera non viene fatta a caso. Non è Obama a prendere le grandi decisioni, ma esse scaturiscono da una classe dirigente composita e numerosa, solo in parte formata da personaggi eletti o burocrati di professione. Ovviamente questa classe dirigente non è monolitica e possono esservi incomprensioni e divergenze d’opinione, ma essa ha comuni obiettivi strategici: tutelare gl’interessi dell’élite e, in subordine, quelli degli USA. Non credo che un tribunale di Washington potrà cambiare le decisioni uscite dalla Casa Bianca, perché esse non promanano da Obama, ma da un’intera classe dirigente di una superpotenza mondiale.

6) Da tre mesi l’Italia sta combattendo contro l’ex alleato Gheddafi. Questo cosa comporterà a lungo termine nei rapporti economici e politici tra i due paesi, considerando che Tripoli è uno dei nostri principali partner economici nonché un fondamentale fornitore di energia?

DS: Di sicuro non si riproporrà una situazione così favorevole com’era quella prebellica, ossia di pochi mesi fa. Allora avevamo un paese vicino che ci riforniva di petrolio e gas, garantiva commesse alle nostre imprese, e reinvestiva i petrodollari nel nostro paese. Questa situazione ideale non ritornerà. Se dovesse vincere Tripoli, allora ci aspetta una piccola “guerra fredda” mediterranea tra Italia e Libia, dopo il nostro goffo e poco dignitoso voltafaccia. Se dovessero vincere i ribelli, Roma avrà rapporti diplomatici ed economici normali con le nuove autorità libiche, ma Francesi, Britannici, Statunitensi ed emirati del Golfo avranno sempre la precedenza rispetto a noi. Se invece dovesse permanere una situazione di stallo, dalla Libia raccoglieremo solo destabilizzazione ed ondate di profughi e migranti.

PL: L’Italia com’è noto ha, o forse ha avuto, con la Libia un rapporto privilegiato anche sulla base del trascorso neo-coloniale. Come del resto tutti i paesi europei nei confronti delle ex-colonie…diciamo che il mantenimento di rapporti cordiali, privi di rancore, è la norma. Del resto l’età del colonialismo si è chiusa da un pezzo ed i paesi della sponda sud sono adesso interlocutori a pieno titolo. Posta questa premessa, l’Italia nella sua tradizione geo-politica e di politica estera ha sempre avuto due campi di implicazione cioè l’area danubiano-balcanica e quella “mediterraneo-colonie”, che sono divenuti tre con il processo di integrazione europea. È normale che un paese guardi con occhio più attento a ciò che succede nei propri confini diretti. Con l’avvento del “terzo cerchio” quello appunto legato all’UE, l’Italia ha scelto di limitare la propria sovranità per fare parte di un consesso di paesi coi quali condividere questioni di varia natura, finanche di politica estera. La scelta italiana quindi si giustifica, com’è noto, in questo senso: se faccio parte di un club, i soci si aspettano da me un comportamento consono alle linee guida del club stesso. Queste scelte possono poi essere criticabili e oggetto di discussione ma la ratio che ha mosso la diplomazia romana è stata questa. Cosa cambierà nei rapporti con Tripoli? Per l’interessa nazionale, legato realisticamente all’approvvigionamento energetico in teoria nulla ma solo se il regime di Gheddafi verrà meno e sarà sostituito da quello dei ribelli cirenaici. Se ciò non dovesse accadere, beh ci troveremo dinnanzi ad un autocrate che per lungo tempo abbiamo considerato amico e al quale poi abbiamo voltato le spalle. Ma sono convinto che i decisori queste considerazioni le avranno fatte prima di decidere come muoversi.

7) Sempre rimanendo in tema di Libia, gli insorti, aiutati dai volenterosi paesi filo atlantici, stanno avanzando verso Tripoli, roccaforte di Gheddafi e del suo governo. La conclusione del conflitto appare però ancora lontana. A vostro parere è concreto il rischio di un nuovo pantano simile a quello iracheno? E quale futuro attende Gheddafi in caso di sconfitta?

DS: I paesi atlantici stanno rapidamente volgendosi verso un’escalation militare. L’impiego di elicotteri da guerra li avvicina sempre più all’intervento via terra, che del resto è già realtà tramite alcune operazioni di commandos e l’impiego di mercenari. Un coinvolgimento terrestre delle forze atlantiche potrebbe accelerare la fine del conflitto (o procrastinarlo suscitando una rivolta anticoloniale). In ogni caso, il vero nodo rimarrà la sistemazione post-bellica della Libia. A meno di una vittoria di Tripoli che ristabilisca lo status quo ante (che però abbiamo visto quanto essere fragile), al posto della Libia ci ritroveremo un coacervo di tribù, movimenti e potentati locali che sarà impossibile riamalgamare in maniera duratura. Lo spettro è quello d’una nuova Somalia in riva al Mediterraneo, ed a pochi chilometri dalle nostre coste.

PL: Il pantano iracheno è verosimile o inverosimile a seconda di ciò che si intende appunto per pantano. In Iraq il pantano fu duplice: per la popolazione che prese ad autodistruggersi in una guerra civile sulla quale soffiarono tra gli altri anche i militanti di al-Qa’ida e per gli occupanti della “willing cohalition” che si trovarono impreparati dinnanzi ad una situazione che non sapevano controllare (vi fu chi parlò di un secondo Viet Nam). In Libia manca uno dei due elementi cioè l’occupazione di terra da parte diciamo occidentale. Il pantano però può sempre verificarsi secondo la prima direttiva cioè l’esplosione della guerra civile. Anche qui però ci sono diverse difformità rispetto all’Iraq: in quest’ultimo caso si doveva considerare la frattura della società in almeno tre parti, sunniti, sciiti e curdi (oltre a strettissime minoranze di cristiani, sabei-mandei, siriaci ed altro). Quindi abbiamo assistito a lotte fratricide di sunniti contro sciiti, sunniti contro altri sunniti, curdi contro sunniti…..In Libia tutte queste minoranza non ci sono però è molto forte, forse più che in Iraq, il tribalismo ed il tribalismo è basato su un elemento che il “sociologo” maghrebino del 1400 Ibn Khaldun definì le “’asabiyyat” cioè lo spirito di corpo…il legame clanico indissolubile…Gheddafi, che non dispone certo di un esercito di proporzioni enormi, resiste a tutt’oggi proprio per questo sodalizio clanico a mio avviso e, certo, anche perché dinnanzi ha dei ribelli che si sono improvvisati combattenti.
Tornando al punto, in Iraq la partita si è conclusa con la formazione di una Repubblica Federale in cui l’unico membro della federazione oltre allo Stato centrale di Baghdad è la Regione del Kurdistan iracheno. In caso di vittoria dei ribelli, e sperando che la guerra civile non esploda, potrebbe essere plausibile immaginare un assetto del genere…cioè una federazione che dia libertà alle sue parti costituenti…tuttavia si deve anche capire qual è la logica sottesa a questa separazione se cioè agevolare la coesistenza pacifica delle varie fratture della società o se quella di voler rimodulare il paese soltanto come somma delle sue parti…quanto a Gheddafi in prima persona, chi può dirlo? Verrà processato probabilmente, come avvenne per Saddam Hussein. In quel caso sarà interessante vedere come agirà la giustizia internazionale.

8 ) Iraq e Afghanistan sono stati resi democratici dalle bombe umanitarie a stelle e strisce; Libia, Egitto e Siria sembrano essere pronti ad abbracciare la democrazia nella sua accezione moderna a stelle e strisce, e l’Iran?

DS: Credo che un attacco all’Iran da parte degli USA abbia perso un po’ d’attualità. Nel 2012 avremo le elezioni presidenziali negli USA e nel 2013 in Iran. Sicuramente cambierà il presidente iraniano, visto che Ahmadinejad non può ricandidarsi, ed anche Obama corre grossi rischi di non essere riconfermato, malgrado l’eccezionale risultato d’immagine della presunta uccisione di Bin Laden. In Iràn la lotta interna alla classe dirigente si sta inasprendo. Anche se Rafsanjani e la “onda verde” paiono ormai fuori dai giochi, lo scontro si è ora spostato a dividere il presidente Ahmadinejad dalla guida suprema Ayat Allah Khamenei. La tensione, apparentemente insanabile, è tra il clero, che vuol mantenere la sua preminenza nel paese, ed i laici (nel senso non di laicisti, ma di esterni al clero) che sembrano cominciare ad essere un po’ insofferenti di questa tutela troppo stretta delle autorità religiose. La diatriba tra il chierico Rafsanjani (la vera “eminenza grigia” dietro a tutto il fenomeno della “onda verde”) ed il laico Ahmadinejad si ripropone, dopo l’uscita di scena del primo, con Khamenei, che ha dalla sua una popolarità assai più forte di Rafsanjani ed una carica ben più autorevole. Anche Ahmadinejad è molto popolare in Iràn, e per giunta può contare su un buon momento dell’economia del paese, riconosciuto persino dal Fondo Monetario Internazionale che ha lodato le riforme del Governo iraniano.
La mia opinione è che gli USA vogliano restare a guardare come evolve la situazione in Iràn e, se nel 2013 dovesse emergere un presidente più collaborativo, cercare un accomodamento. Come al solito potrebbe sparigliare le carte Israele, ma molto dipende dalle reali previsioni sulle capacità nucleari iraniane. Le previsioni a disposizione dei decisori strategici a Washington e Tel Aviv sono certamente diverse da quelle che vengono rese pubbliche. Se Israele ritenesse che l’Iran sia prossimo allo sviluppo di armi atomiche, o quanto meno ad acquisire le capacità necessarie per procedere a tale sviluppo, potrebbe attaccare unilateralmente, con incursioni aeree sul modello di quanto fatto contro la Siria pochi anni fa. Il caos provocato dalle rivolte arabe potrebbe essere la cornice ideale, perché i paesi della regione hanno troppi problemi interni per preoccuparsi di quanto avviene tra Israele e Iràn.

PL: L’Iran per il momento è uscito dalla scena… nel senso che se ne parla meno rispetto a qualche tempo fa quando la madre di tutte le questioni sembrava essere la sua nuclearizzazione. In Iran la rivolta dell’onda verde non ha attecchito e non ha prodotto risultati. Forse perché il regime riesce a produrre ancora quella mobilitazione popolare cui si accennava prima, grazie al connubio dell’elemento religioso (il principio della Wilayat al-Faqih) e quello, chiamiamolo, temporale rappresentato dal Presidente e dal suo establishment. A mio avviso due sono i paesi islamici che nel prossimo futuro giocheranno un ruolo di potenza regionale ed ambedue non sono paesi arabi: Turchia e proprio Iran. La domanda è capire se essi due potranno avere un ruolo attrattivo nei confronti dei vicini arabi e, in caso di risposta affermativa, di che natura…per meglio dire Turchia e Iran, accantonate le divergenze di sempre, condividono i medesimi obiettivi se vogliamo revisionisti? E se si, sono pronti ad assumersi a pieno titolo il ruolo di leadership di quella che Huntington chiamò la “civiltà islamica”?


“Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici della guerra in Libia” a Milano

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Sabato 25 giugno 2011 alle ore 15.30 si è tenuta a Milano, presso il Centro Culturale San Fedele di Piazza San Fedele 4, la conferenza “Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici dietro la guerra in Libia”.

Sono intervenuti come relatori: Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”), Maurizio Cabona (giornalista e saggista), Roberto Giardina (redattore del “Quotidiano Nazionale”), Luca Tadolini (difensore di Nuri Ahusain) e Joe Fallisi (testimone oculare dello scoppio della guerra in Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Di seguito la registrazione video ed alcune istantanee dell’evento.

 
VIDEO

Prima parte:

Seconda parte:

Terza parte:

 
FOTO

Da sx a dx: A. Braccio, R. Giardina, M. Cabona, J. Fallisi, L. Tadolini

L'introduzione di Aldo Braccio

L'intervento di R. Giardina

T. Graziani al Congresso Europeo sul Bahrayn

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato invitato ed ha preso parte al Congreso Europeo de Solidaridad con el Pueblo de Bahrein, svoltosi a Madrid il 25 e 26 giugno 2011, presso l’Hotel Jardin Metropolitano di Avenida Reina Victoria, 12.L’evento è stato organizzato da Junta Islàmica de la Comunidad de Madrid, “Por la Paz Ahora”, Asociaciòn Ahlul Bait e Comité de Solidaridad con Bahrein, in collaborazione con Federaciòn Musulmana de Espana, UMME, Cambio e Plataforma “Mujeres Artistàs”.

Tiberio Graziani ha preso parte alla sessione domenicale, dal titolo Occidente y la crisis de Bahrein, moderata da Manuel Dominguez Moreno (presidente del Gruppo EIG Multimedia, direttore della rivista “Cambio 16″).T. Graziani (primo da destra) In questa stessa sessione sono intervenuti come relatori anche Waseem Alkhateeb (direttore di “Alhalbait.nl”), Teresa Aranguren (giornalista esperta di Medio Oriente), Anna Stamou (direttrice delle pubbliche relazioni dell’Associazione Musulmana di Grecia), Juan José Véliz (direttore di “Islamisktforum.se”) e Emilio González Ferrín (arabista, professore presso l’Università di Sevilla).

La locandina dell’evento in pdf, col programma completo, si può scaricare cliccando qui.

Di seguito la Dichiarazione di Madrid, siglata in conclusione dei lavori dai partecipanti.

 
Tiberio Graziani La sessione con T. Graziani Alcune spettatrici Un momento del CongressoDICHIARAZIONE DI MADRID (trad. it. di F.S. Angiò)

Il Congresso Europeo di Solidarietà con il Popolo del Bahrein esprime la sua incondizionata solidarietà al popolo del Bahrein, vittima di una repressione selvaggia e costante da parte del suo stesso governo e di un’invasione di truppe straniere guidate dalle forze militari dell’Arabia Saudita.

La repressione contro il popolo del Bahrein è stata simboleggiata dalla distruzione del monumento situato in Piazza della Perla, epicentro delle manifestazioni in favore della libertà che hanno avuto luogo a Manamà e altri città a febbraio e marzo. Lo sgombero della piazza, ottenuto con l’uso di carri armati ed elicotteri, ha provocato la morte e il ferimento di centinaia di persone, tra cui donne, bambini e anziani, il cui unico crimine è stato chiedere libertà, democrazia e la fine delle torture e delle vessazioni che caratterizzano l’azione del regime della famiglia Al Jalifa in Bahrein.
Poco dopo, le truppe saudite e del Bahrein hanno circondato numerose località tagliando l’erogazione di energia elettrica e posizionando blocchi sulle vie di comunicazione per controllare la popolazione. A ciò si sono aggiunti i blitz negli ospedali, come quello di Suleimaniya, dove feriti, medici, infermiere e personale sanitario sono stati arrestati e torturati.
La sola colpa dei medici e del personale sanitario contro cui si è scatenata la repressione – che viola tutte le norme e regole etiche internazionali e che, pertanto, dovrebbe essere condannata a livello internazionale – è quella di aver fatto il loro dovere e assistito i feriti. Al contempo, la condanna abbattutasi sugli attivisti per la democrazia per il solo fatto di chiedere per il popolo del Bahrein gli stessi diritti contenuti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e nelle altre convenzioni internazionali rappresenta un altro affronto inaccettabile per il diritto e la decenza internazionali.
Il Congresso vuole sottolineare in particolare il ruolo eroico svolto dalle donne nella lotta per la libertà in Bahrein e mostra la sua solidarietà verso tutte quelle detenute, inclusa Ayat al Qarmezi, ed esige l’immediata scarcerazione di tutte loro.
A ragione di ciò, il Congresso chiede:
- l’immediata liberazione di tutti i prigionieri politici del Bahrein.
- l’immediata messa in pratica delle riforme politiche chieste dal popolo del Bahrein, che garantiscano le libertà e i diritti per tutti i cittadini, incluso quello di eleggere democraticamente la forma di governo, secondo le norme internazionali.
- il ritiro delle truppe d’occupazione saudite e degli altri paesi del Golfo e la cessazione di ongi ingerenza di questi paesi negli affari interni del Bahrein.
- la fine delle torture, violenze sessuali e altri maltrattamenti compiuti dalle forze di sicurezza del Bahrein.

- il processo per crimini di guerra e contro l’umanità presso un tribunale internazionale nei confronti del sovrano del Bahrein, Hamad bin Isa al-Khalifa, e di tutti i membri della sua corte e del suo governo che sono colpevoli di tali fatti, e del re dell’Arabia Saudita, Abdula bin Abdul Aziz, e di tutti i membri della sua corte e del suo governo che, a ogni livello decisionale, abbiano preso parte all’invasione del Bahrein. Allo stesso tempo, è necessario processare tutti i militari e i membri delle forze di sicurezza del Bahrein e saudite colpevoli di crimini contro il popolo del Bahrein.

Il Congresso esprime inoltre la sua solidarietà verso tutte le dimostrazioni di sostegno al popolo del Bahrein che hanno luogo in diversi paesi, in particolare verso quelle manifestazioni nate nelle città saudite in favore del popolo del Bahrein e a sostegno della democrazia e della libertà nella stessa Arabia Saudita.

Madrid, 26 giugno 2011

“Capire le rivolte arabe” a Torino

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Si è tenuta a Torino venerdì 8 luglio 2011, alle ore 21.15, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe, presso il Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma” di Via Fiochetto 15. Sono intervenuti come relatori il co-autore Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG), Enrico Galoppini (redattore di “Eurasia”, per anni ha insegnato Storia dei paesi islamici nelle università italiane) e Giovanni Andriolo (ricercatore dell’IsAG).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), in collaborazione col Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma”.

Turchia: A. Braccio intervistato dall’ASI

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Aldo Braccio dell’IsAG è stato intervistato da Fabrizio di Ernesto per l’Agenzia Stampa Italia a proposito dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Turchia ponte d’Eurasia (Fuoco Edizioni, Roma 2011). Nell’intervista Braccio discute il ruolo internazionale della Turchia, il difficile avvicinamento all’Unione Europea, le rivolte arabe e la politica interna del paese anatolico. Riportiamo il testo integrale dell’intervista, che si può leggere in originale cliccando qui.

 
(ASI) Proprio in questi giorni sta uscendo il suo saggio TURCHIA PONTE D’EURASIA. Che ruolo svolge Ankara in questo momento sullo scenario mondiale, ed in particolare all’interno del blocco eurasiatico?

Per la verità in questo particolare momento la Turchia sta giocando un ruolo di basso profilo, suscettibile di diverse interpretazioni. Infatti sia nel caso libico che in quello siriano – due Paesi arabi che hanno costituito interlocutori importanti, specie il secondo, per Ankara – il governo si è un po’ rimesso alle decisioni e alle pretese della cosiddetta “comunità internazionale”, ossia del mondo atlantico/occidentale a guida statunitense. Tuttavia, esaminato in un contesto temporale più ampio, il ruolo della Turchia appare senza dubbio innovativo e decisamente responsabile: un Paese sovrano e non più semplice “sentinella dell’Occidente”, che vuole essere protagonista di nuovi e più stabili equilibri e che dà anche sostanza a un discorso eurasiatico.
Il libro esamina la “questione turca” da un punto di vista storico (il suo passato imperiale e poi “kemalista”, gli ultimi e più recenti anni di svolta), geopolitico e culturale (i suoi rapporti con l’Europa, ad esempio), cercando di sfatare determinati luoghi comuni su un mondo affascinante ma spesso incompreso.

La Turchia è posta a cavallo tra Europa ed Asia, troppo orientale agli occhi dell’occidente e troppo europea per gli asiatici. Quale è a suo giudizio la giusta collocazione del paese e perché?

La risposta, in un certo modo, viene dalla Storia, e in particolare dalla storia delle grandi formazioni imperiali poste tra Europa e Asia: l’impero di Alessandro, quello romano, quello bizantino e quello ottomano comprendevano tutti terre europee e terre asiatiche, e in tutti figurava – come elemento intermedio e di collegamento – l’Anatolia. Questa è la giusta collocazione della Turchia, rappresentata sinteticamente da Istanbul/Costantinopoli/Bisanzio.

Ritiene allora che un certo spirito imperiale possa trovare corrispondenza e riscontro nella Turchia, e che ciò possa giovare all’Europa?

Quando si parla di suggestioni imperiali o neottomane della Turchia si esprime, con una formulazione magari imprecisa, una verità di cui bisognerebbe tener conto: nel senso che la Turchia tende ormai a mettere da parte l’orientamento rigidamente nazionalistico perseguito dal kemalismo per recuperare una visione più organica, sia all’interno (rispetto dell’identità curda, di quella religiosa, ecc.) sia all’esterno (ad esempio apertura e dialogo con i Paesi arabi e interventi di mediazione in diverse situazioni critiche internazionali). L’Europa ha sicuramente da avvantaggiarsi da tutto ciò, perché trova un interlocutore attivo e “creativo”, al centro di una rete di incontri e di alleanze importanti: ma bisogna che anch’essa abbia una politica internazionale forte e indipendente.

La Turchia è un mirabile esempio di come possa convivere la laicità dello stato, la modernità e la religione islamica. Può diventare il modello politico di riferimento per le nazioni arabe in rivolta? Sempre in base a questa premessa, in una Europa sempre più mussulmana la Turchia può rappresentare un esempio da seguire?

Considero il termine “modernità” come un disvalore, legato alla “moda” e all’effimero di una società priva di gerarchie e di effettivi vincoli personali e comunitari. Se invece parliamo di Stato (con la s maiuscola), magari di Stato sociale che si sottrae all’accumulazione capitalistica, e di religione islamica (o di religione tout court), e dei rapporti che possono intercorrere fra queste due realtà, allora penso che l’attuale Turchia di Erdoğan possa effettivamente rappresentare un modello interessante; non l’unico certamente, ma un esempio che può trovare riscontro nei Paesi arabi o altrove (forse anche in Europa, dove i valori legati alla religione sono spesso malvisti o sopportati con fastidio).

Uno dei tormentoni politici di Bruxelles è quello relativo ad una possibile ammissione di Ankara nell’Unione europea. Qualora la Turchia riuscisse ad entrare nella Ue sarebbe un vantaggio per ambo le parti o solo per una delle due? Ed in caso a quali rinunce sarebbe costretta la Turchia?

Sì, è vero, è un tormentone europeo e in particolare anche italiano. Io penso che bisognerebbe sempre ricordare che l’attuale Unione europea rappresenta, purtroppo, un’entità finanziario-economica sostanzialmente estranea e contraria agli interessi dei popoli europei; politicamente parlando l’Europa risulta essere ad encefalogramma piatto, totalmente asservita a interessi speculativi oligarchici e alla politica estera degli Stati Uniti d’America. Però, sul piano generale e di principio, la Turchia e l’Europa si completano a vicenda: la prima può geograficamente essere considerata la quarta penisola che si affaccia nel Mediterraneo (dopo quelle iberica, italiana e balcanica), e già questo dà il senso del legame che esiste; si aggiunga il ruolo fondamentale che Ankara svolge nell’intermediazione/passaggio di oleodotti e gasdotti dai Paesi produttori a quelli europei. Un vantaggio reciproco, pertanto, ma l’Europa deve riacquistare la sua sovranità per giocare il suo ruolo.

Recentemente come Agenzia stampa Italia abbiamo incontrato Akki Hakil, ambasciatore turco in Italia. Questi ci ha parlato degli ottimi rapporti che intercorrono tra Ankara e Teheran. A suo modo di vedere è ipotizzabile la nascita di un asse turcoiraniano in grado di dare stabilità alla regione mediorientale e fare da contro altare non solo allo strapotere politico e militare di Israele ma anche a quello economico di Cina e India?

Quello con l’Iran è uno dei diversi assi in corso di costruzione e che vedono la Turchia muoversi con spregiudicatezza; l’aspetto sicuramente più positivo è che nell’ottica turca tali assi riescono a convivere e a combinarsi con una certa armonia dando vita a delle piattaforme regionali molto significative, in cui protagonisti del proprio destino sono le nazioni locali e non potenze lontane – d’oltreoceano, addirittura … – che pretendono di continuare a dettar legge a “buoni” e “cattivi”. L’accordo fra Iran e Turchia è positivo e apportatore di stabilità, anche se scandalizza determinati bacchettoni occidentali e i loro massmedia.

Sempre sua eccellenza Hakil ci ha riferito dei grandi progressi compiuti negli ultimi anni dalla Turchia. Secondo lei cosa manca ancora al paese dei Dardanelli per arrivare ai livelli raggiunti dalle nazioni che compongono il ristretto gruppo del Brics?

Manca poco, effettivamente: nel primo trimestre 2010, tanto per citare un dato recente, il Paese dei Dardanelli ha costituito la seconda economia del G20 per crescita del PIL, inferiore solo alla Cina. E la tendenza continua. Il boom economico turco va di pari passo con le sue direttrici geopolitiche (sono enormemente aumentate le esportazioni verso Iran, Turkmenistan e Stati arabi) e con il cortese ma preciso rifiuto dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale (organizzazione che indebita gli Stati).

Quale futuro aspetta la Turchia e il paese sarà in grado di gestire il delicato ruolo di ponte tra Europa e Asia?

Un buon futuro, al pari di quello del continente eurasiatico (e, più in generale, un futuro migliore per il mondo!) se si riuscirà a costruire un sistema internazionale più equilibrato, multipolare anziché unipolare a guida statunitense; un sistema in cui il rispetto delle identità e delle differenze prevalga sull’imposizione di modelli unici di pensiero e di economia. La Turchia, fra alti e bassi, mi sembra si muova in questa direzione.

Progetti di egemonia: neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto

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PROGETTI DI EGEMONIA.
Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto

Autore: Francesco Brunello Zanitti
Prefazione: Daniele Scalea
Editore: IsAG/Edizioni all’Insegna del Veltro, Roma-Parma 2011
Caratteristiche: € 18, pp. 160.

Dalla quarta di copertina:

A seguito della vittoria di Bush nel 2000 e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre i neocons statunitensi hanno influenzato considerevolmente la politica estera della Casa Bianca: la scelta di una politica estera unilateralista, dominata dal concetto di guerra preventiva agli Stati considerati fiancheggiatori del terrorismo; lo scetticismo nei confronti delle istituzioni internazionali e verso alcuni alleati europei; l’invasione dell’Iraq, collegata all’ideale di esportazione della democrazia e alla difesa della supremazia statunitense a livello globale, sono tutti elementi che testimoniano l’ascendenza neoconservatrice sull’amministrazione repubblicana.
Allo stesso tempo l’ultimo decennio della politica israeliana è stato caratterizzato dal rafforzamento della destra, in particolare del Likud, partito erede del neorevisionismo, movimento politicio basato su alcuni concetti già espressi dal sionismo revisionista e dal suo leader, Vladimir Jabotinsky: l’idea di un’inevitabile lotta tra ebrei ed arabi, il diritto per il popolo ebraico dell’intera Eretz Israel per la costruzione dello Stato d’Israele e il primato della forza sulla diplomazia nelle relazioni internazionali.
Gli Stati Uniti e Israele hanno avuto fin dal 1948 una speciale alleanza, ritemprata dalla recente egemonia neoconservatrice negli Stati Uniti. Si può parlare in questo contesto di un singolare legame tra i neocons e gli esponenti del Likud? Il neoconservatorismo e il neorevisionismo, pur essendo due movimenti nati in ambienti politici e geografici lontani e molto differenti, hanno elementi in comune nelle loro ideologie sottostanti? L’analisi del pensiero dei due movimenti politici e le azioni intraprese in politica estera dagli appartenenti a queste correnti una volta raggiunto il potere nei rispettivi paesi possono offrire un’ideale chiave di lettura per comprendere le similitudini e le differenze tra neoconservatorismo statunitense e neorevisionismo israeliano.

Indice:

PREFAZIONE (di Daniele Scalea)
INTRODUZIONE
Capitolo 1
I NEOCONS STATUNITENSI E I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI
1.1 I caratteri generali della questione
1.2 Le caratteristiche principali del neoconservatorismo statunitense
1.3 Le caratteristiche principali del neorevisionismo israeliano
1.4 La speciale alleanza tra Stati Uniti e Israele
Capitolo 2
I NEOCONSERVATORI AMERICANI
2.1 Alle origini del neoconservatorismo
2.1.1 Alcove 1
2.1.2 Il Vital Center
2.1.3 Leo Strauss
2.2“Commentary”, “The Public Interest” e l’importanza dei media
2.3 I neoconservatori e la politica estera americana
2.3.1 L’eccezionalismo americano
2.3.2 I neocons, il Terzo Mondo, le organizzazioni internazionali e l’Europa
2.3.3 I neocons e Israele
Capitolo 3
I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI
3.1 Alle origini del neorevisionismo: Vladimir Jabotinsky
3.2 Le caratteristiche del neorevisionismo
3.2.1 L’utilizzo di simboli e miti neorevisionisti
3.2.2 Israele e il resto del mondo. Il ruolo dell’“Olocausto”
3.2.3 Il rapporto con il mondo arabo
3.2.4 Il neorevisionismo tra anni ’90 e 2000. Benjamin Netanyahu
Capitolo 4
NEOCONSERVATORISMO E NEOREVISIONISMO A CONFRONTO
4.1 Le origini
4.2 Il nazionalismo
4.3 Il conservatorismo e il radicalismo
4.4 Tendenze espansionistiche e militariste
4.5 L’eccezionalismo
4.6 L’unilateralismo in politica estera e la guerra preventiva
4.7 Homo homini lupus, pessimismo e ottimismo
4.8 «The road to Jerusalem leads through Baghdad»
Capitolo 5
CONCLUSIONI
FONTI E BIBLIOGRAFIA

Per maggiori informazioni:
Blog promozionale
Per acquistarlo:
Sito dell’Editore

Dicono dell’opera:

“Lo studio di Francesco Brunello Zanitti è una ricerca storica con una forte componente d’attualità”
Daniele Scalea (dalla Prefazione)

“L’autore riesce a sintetizzare in maniera convincente il pensiero che guida le due nazioni nel loro rapportarsi col resto del mondo”
Eleonora Peruccacci (eurasia-rivista.org)

Book trailer:

D. Scalea sul debito pubblico italiano a Class News CNBC e Radio Italia IRIB

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e saggista (autore de La sfida totale e co-autore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe), negli ultimi giorni è stato invitato a commentare la crisi del debito pubblico italiano presso la rete televisiva Class CNBC e quella radiofonica Radio Italia (IRIB). Riportiamo di seguito le trascrizioni d’entrambi i suoi interventi.

Scalea ha partecipato su Class CNBC alla trasmissione “Il debito dell’Europa”, condotta da Francesco Guidara e trasmessa in diretta alle ore 16.10 di oggi, martedì 23 agosto. Ospite in studio Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, collegato telefonicamente Giorgio Benvenuto, ex segretario del PSI e presidente della Fondazione Bruno Buozzi.
Intervenendo in collegamento telefonico, Daniele Scalea ha dichiarato:

Vi sono due prospettive da cui è possibile osservare la questione delle privatizzazioni: una economico-finanziaria, ed è quella finora adottata nel dibattito; l’altra strategica. Per ragioni di competenza (e speculare incompetenza) io mi concentrerò su quest’ultima, ma non posso esimermi da una breve incursione nel dominio dell’economia. Dimostrando che le privatizzazioni non possono avere un effetto salvifico rispetto al problema del debito, si rafforza le liceità dell’approccio strategico.
Bene: prendiamo il caso dell’Italia stessa. Nel 1980, data che possiamo convenzionalmente assumere come inizio delle privatizzazioni, il rapporto debito pubblico / PIL era al 55%. Nel 1991, ultimo anno dell’ultimo governo Andreotti, il rapporto è al 98%. Si è alla vigilia della stagione dei governi tecnici e del grande ciclo di privatizzazioni. Ma nei vent’anni seguenti, il rapporto debito/PIL raggiunge il massimo nel 1994, col 121,8%, e come minimo non scende al di sotto del 103,6% del 2007, chiudendo il 2010 al 119%. La situazione del debito è dunque peggiorata, dal 1991 ad oggi, malgrado un decennio almeno di privatizzazioni.
L’Istituto Bruno Leoni ha individuato 20 società di proprietà pubblica o a partecipazione statale da dismettere, prevedendo un incasso pari a 102 miliardi. Questa cifra rappresenta solo una frazione del debito pubblico italiano, poco più del 5%.
Lungi da un’opposizione di principio alle privatizzazioni, bisogna però chiedersi se, per ottenere risultati tanto limitati, valga la pena rinunciare ad imprese strategiche come l’ENI – che cura l’approvvigionamento energetico d’un paese come l’Italia che di risorse energetiche è drammaticamente privo – come Finmeccanica – azienda di rilievo internazionale nella produzione d’armamenti – e come le Poste – che nell’ultimo periodo hanno cominciato ad operare nella collezione del risparmio. Lo stesso Luca Cordero di Montezemolo (non certo sospettabile d’ostilità verso il liberalismo) in una recente intervista al “Corriere della Sera” ha auspicato la privatizzazione ma delle “industrie non strategiche”.

L’intervista con l’IRIB è stata realizzata alcuni giorni fa, e può essere ascoltata tramite l’oggetto audio sottostante. Eccone la trascrizione integrale:

Signor Scalea, come giudica la situazione economica italiana?

Direi che si debba innanzi tutto distinguere tra la situazione economica e quella finanziaria. L’Italia rimane ancora uno dei primi paesi al mondo per quanto riguarda il prodotto interno lordo, malgrado il declino degli ultimi decenni. La situazione finanziaria, del debito pubblico, è invece molto più grave. Il quadro generale è dunque piuttosto negativo, anche perché l’Italia negli ultimi decenni ha affrontato un processo di finanziarizzazione e deindustrializzazione che ne ha minato la base produttiva, per quanto continui a difendersi quello che negli ultimi quarant’anni ha rappresentato il nerbo dell’economia italiana, ossia la piccola e media impresa. Ma la situazione più grave è nelle casse pubbliche, per un debito che si è creato fin dagli anni ’70. Esso è nato in concomitanza con le riforme, che erano dovute per creare uno Stato sociale in linea con quello degli altri paesi europei, ma che in Italia ha visto probabilmente eccedere negl’investimenti non produttivi e negli sprechi. Queste riforme hanno coinciso con la fine del “miracolo economico”, quindi il rallentamento della capacità dell’industria d’assorbire la manodopera, crescente in una fase di incremento demografico. Perciò, nel quadro della creazione dello Stato sociale si è teso a costruire un apparato burocratico più ampio di quello di cui effettivamente aveva bisogno l’Italia, pur di assorbire la disoccupazione anche in maniera non produttiva.
Sono già state fatte delle riforme per diminuire il numero d’impiegati pubblici: rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, l’Italia oggi ha meno dipendenti statali in rapporto alla popolazione. Ma di sicuro il problema italiano sta anche nella qualità e nell’efficienza: al di là del numero d’impiegati, sovente gl’investimenti – soprattutto statali – non hanno un ritorno accettabile e tendono a consumarsi nello spreco.
Il problema fondamentale dell’economia italiana risiede dunque in questo: che l’Italia assorbisca una parte cospicua della ricchezza nazionale tramite le tasse, ma una grossa fetta del denaro così raccolto, anziché essere tramutato in servizi per la popolazione e per le imprese ed in investimenti produttivi (ad esempio per le infrastrutture), va ad alimentare un “sottobosco” di sperpero formato da una classe politica elefantiaca, probabilmente anche un certo numero di dipendenti pubblici in esubero, e sicuramente finanziamenti a pioggia e non troppo cristallini ad una miriade di enti non sempre di chiara utilità.

Secondo lei il Governo ha fatto dei passi verso il miglioramento di questa situazione?

Alcune misure sono probabilmente incoraggianti: ad esempio una prima diminuzione di “poltrone” politiche tramite il taglio della province e l’accorpamento di comuni. Va però notato che si parla di un intervento molto limitato: lungi dall’abolire tutte le province, come si prometteva pochi anni fa, oggi in una situazione di maggiore emergenza se n’è tagliata solo qualcuna.
Un altro problema della manovra finanziaria è quello che – forse per la fretta con cui è stata realizzata – prevede tagli salomonici, basandosi su criteri puramente quantitativi e non qualitativi. Una delle regioni più colpite dalla soppressione di province e comuni è il Piemonte, che pure ha un numero di dipendenti regionali molto inferiore ad altri regioni, come la Sicilia, che però sono risparmiate dai tagli pur essendosi distinte per lo sperpero di denaro pubblico.
La stessa logica del non distinguere tra “virtuoso” e “vizioso” soggiace alla scelta di rinunciare alla patrimoniale per imporre una sovrattassa oltre un certo reddito: si colpisce chi già paga le tasse risparmiando gli evasori, intere categorie sociali in cui l’evasione è molto diffusa.

Quali scelte possono cambiare l’attuale situazione economica?

Il nostro problema è che abbiamo un debito pubblico tra i più alti del mondo, sia in termini assoluti che in rapporto al PIL, e a differenza degli USA non possiamo stampare liberamente moneta controllando la banca centrale ed avendo la valuta di riserva mondiale. L’Italia deve fare i conti con una moneta amministrata da un’entità esterna (la BCE), con perciò tutta una serie di limitazioni: la più ovvia, l’impossibilità di svalutare per aumentare le esportazioni e scaricare il debito in inflazione.
Realisticamente, l’Italia non è in grado di ripagare questo debito. Dagli anni ’90 si taglia la spesa pubblica e il sociale, si è praticamente fermi con gl’investimenti infrastrutturali (qualche linea di TAV a parte), si ha una pressione fiscale esageratamente alta che deprime le capacità produttive del paese.
A mio parere, l’unica possibilità che avrebbe ora l’Italia è di seguire le orme dell’Argentina: ristrutturare il debito per commisurarlo alle effettive capacità di ripagarlo. Se anche l’Italia dovesse riuscire a ripagare tutto il suo debito nel giro di qualche decennio, si tratterebbe di decenni senza sviluppo, al cui termine il nostro paese oscillerebbe tra il “secondo” ed il “terzo mondo”.
Valutiamo invece il caso dell’Argentina, che nel 2005 ha ristrutturato il debito. Nel 2004 era un paese non solo in bancarotta, ma con una popolazione sotto la soglia di povertà pari a quasi il 45% di quella totale – malgrado quella della nazione sudamericana fosse una realtà storicamente d’alto reddito pro capite. In cinque anni, dopo la ristrutturazione del debito, l’Argentina è riuscita ad abbattere la povertà al 14%, ha avuto una crescita del PIL “cinese” (9% l’anno, 7,5%% nel 2010 dopo la crisi mondiale). Confrontiamola con la Grecia, che invece sta cercando di ripagare interamente il suo debito (come sembra intenzionata a fare pure l’Italia): il reddito pro capite sta calando dal 2007 (in Argentina è aumentato di quasi un quinto dal 2005 ad oggi), un quinto della popolazione è sotto la soglia di povertà, il PIL è sceso nel 2009 del 2% e nel 2010 del 4,5%. Una situazione economica tragica in cui l’Italia rischia di trovarsi molto presto.

D. Scalea intervistato dall’ASI sulla guerra in Libia

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato dall’ASI a proposito della guerra in Libia. L’articolo originale può essere letto cliccando qui. Di seguito la riproduzione:

 
“In Libia la guerra proseguirà ancora a lungo”
Fabio Polese intervista Daniele Scalea

(ASI) Agenzia Stampa Italia ha incontrato Daniele Scalea, segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), redattore della rivista di studi geopolitici Eurasia, autore de “La Sfida Totale” e co-autore, insieme a Pietro Longo, di “Capire le rivolte arabe”.

E’ sempre più difficile ottenere notizie indipendenti su quello che sta succedendo in Libia. I media mainstream rimbalzano la notizia di una Libia liberata dal Rais Muhammar Gheddafi. Cosa sta succedendo e chi c’è dietro questa rivolta?

Sta succedendo che, dopo l’assassinio del generale Younes (comandante militare del CNT) da parte degli estremisti islamici, il fronte dei ribelli si è spezzato. La NATO, nel timore che la missione si concludesse con un clamoroso insuccesso, ha preso in mano la situazione e, con l’ausilio di ribelli islamisti in loco ma principalmente servendosi delle sue forze speciali, di mercenari stranieri e d’intensissimi bombardamenti aerei, è riuscita a conquistare Tripoli. I governativi hanno opposto una fiera resistenza, ma ormai appaiono quasi completamente debellati nella capitale.
Tuttavia, ritengo che la situazione in Libia sia ben lungi dal potersi considerare stabilizzata. La guerra, a mio giudizio, proseguirà ancora a lungo, sebbene i media occidentali la proporranno da oggi in poi come “lotta al terrorismo” o qualcosa di simile. Il punto è che i vertici del Governo libico sono stati scacciati da Tripoli, ma non eliminati. Ed allo stato attuale possono contare ancora sul controllo di molte città e l’appoggio della maggior parte delle tribù. Certo possibili mediazioni e corruzioni potrebbero far deporre le armi ai lealisti, ma bisogna rendersi conto che, dopo Gheddafi, il quadro libico risulterà ancor più frastagliato e confuso. Lui è l’elemento di stabilità nel paese, ed il CNT è ancora un’entità poco rappresentativa e che riunisce componenti molto, troppo eterogenee al suo interno (dagli ex affiliati a Al Qaeda ai liberali espatriati negli USA). Inoltre, il ruolo decisivo delle truppe straniere nella vittoria della battaglia di Tripoli (ed eventualmente della guerra civile) non farà che ridurne il prestigio presso la popolazione ed i capitribù.
La caduta di Tripoli, in realtà, aumenta il rischio di fare della Libia una nuova Somalia. La soluzione negoziale che sembrava stesse uscendo dagl’incontri di Djerba avrebbe garantito un futuro migliore tanto al paese quanto alla regione mediterranea. Ma, evidentemente, non è questo l’obiettivo dell’alleanza atlantica.

Ieri per la prima volta fonti della difesa britannica hanno confermato che uomini dei S.A.S. – i corpi d’elite britannici – sono da settimane in Libia dove hanno avuto un ruolo chiave nella presa di Tripoli. Cosa potrebbe succedere nel “dopo regime”? Verrà inviata una missione di peacekeeping internazionale o il mantenimento della sicurezza verrà affidato al Consiglio di Transizione Nazionale libico?

Le truppe straniere – atlantiche e delle monarchie arabe – sono già nel paese, e dunque non se ne andranno. Il CNT, per quanto visto finora, non è in grado di assumersi l’onere di stabilizzare il paese. Credo che l’invasione di Tripoli abbia segnato una svolta nella guerra di Libia: la sua trasformazione in una vera e propria invasione ed occupazione straniera del paese. Anche se, ovviamente, le parti in causa eviteranno di chiamarla per il suo vero nome. Minimizzeranno il ruolo dei soldati stranieri nel conflitto, e non parleranno più di guerra, ma di lotta del nuovo governo (plausibilmente un governo fantoccio degli occupanti) contro i resti del passato regime per pacificare il paese.

Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha dichiarato: “Sappiamo dei recenti cambiamenti nella situazione libica e chiediamo il rispetto della scelta del popolo della Libia. La Cina è pronta a cooperare con la comunità internazionale per giocare un ruolo attivo nella ricostruzione della Libia”. Che ruolo potrebbe avere la Cina – sempre attenta alle vicende globali – nel post Gheddafi?

La Cina si comporta sempre allo stesso modo: non rifiuta il dialogo con nessuno, non ingerisce negli affari interni di nessuno. A Pechino sarebbe stata bene la permanenza al potere di Gheddafi; ora sta bene l’insediarsi del CNT. Il suo unico interesse è tornare a commerciare al più presto con la Libia, convinta che l’amicizia del paese nordafricano s’otterrà coi rapporti economici e finanziari.

Fra pochi giorni ricorre l’anniversario della firma del trattato di amicizia Italia-Libia. Il trattato è stato sospeso unilateralmente e l’Italia ha preso parte all’attacco militare della NATO. Quali effetti economici e strategici ha portato e porterà per l’Italia questo cambiamento?

In questo momento il ministro Frattini, tra i principali artefici dell’intervento italiano contro la Libia, sta godendosi il suo momento di gloria: alla fine la fazione scelta pare abbia vinto la guerra, e promette di non rivedere in negativo i rapporti con l’Italia. Il fatto che tali risultati si siano ottenuti con un plateale ed indecoroso voltafaccia e tradimento, basterebbe già da solo ad invitare a non fregarsi troppo le mani. Ma il gongolare è ancor più ingiustificato perché, purtroppo per Frattini e per l’Italia, difficilmente i suoi sogni si realizzeranno. La Libia rimarrà a lungo instabile, in preda a scontri intestini. Il flusso di petrolio e gas riprenderà ma in maniera meno regolare che in passato. E gli architetti della guerra e del cambio di regime – Gran Bretagna, Francia e USA – non lasceranno certo che l’Italia continui a godersi la fetta più grossa della torta libica.

Contemporaneamente a quello che sta accadendo in Libia si è parlato spesso della situazione in Siria. Nei telegiornali scorrono esclusivamente le immagini di quella che, dagli occidentali, è stata chiamata “rivoluzione siriana”. Secondo lei, è vicina una risoluzione ONU contro il governo di Bashar al-Assad? E come potrebbe reagire la Russia che ha l’unica base militare nel Mediterraneo proprio in Siria?

Questa è una previsione molto più difficile da fare, poiché vi sono segnali contrastanti. Da un lato, il successo finale (o percepito tale) dell’attacco alla Libia potrebbe suggerire alla NATO di ripetere l’esperimento in Siria. D’altro canto, la Libia potrebbe trasformarsi in un grattacapo ancora maggiore, e di lunga durata, se come ho ipotizzato le truppe straniere dovessero stabilirvisi per pacificarla (ecco perché il ministro La Russa ha auspicato lo stanziamento di soldati africani e arabi, anziché europei e nordamericani). Inoltre, in Siria sembra apparentemente passato il momento peggiore per il governo: ha concesso riforme importanti, gode dell’appoggio della maggioranza della popolazione (perché anche il grosso dell’opposizione è ostile alla lotta armata ed all’intervento straniero), è riuscita a reprimere le insurrezioni armate, per quanto permangano ancora focolai di violenza, spesso alimentati da oltreconfine. Le monarchie autocratiche del Golfo faranno pressione per un intervento della NATO in Siria, perché sperano di instaurare – come in Libia – una nuova monarchia islamista, e di sottrarre un alleato all’Iran. La Russia, a rigor di logica, dovrebbe opporsi ad un nuovo tentativo d’erodere la sua influenza nel mondo, ma l’atteggiamento arrendevole l’ha già portata a piegarsi più volte, soprattutto quando la posta in palio si trovava al di fuori dello spazio post-sovietico.


Neocons e Likud: F. Brunello Zanitti intervistato dall’ASI

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG e autore di Progetti di egemonia, è stato intervistato da Fabrizio Di Ernesto dell’ASI a proposito della sua ultima opera. Di seguito la riproduzione dell’articolo originale (clicca qui per vederlo):

 
(ASI) Abbiamo incontrato Francesco Brunello Zanitti giovane, ma molto preparato, saggista che di recente per i tipi delle Edizioni all’insegna del Veltro, per conto dell’Isag, ha pubblicato il volume Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. Ne abbiamo approfittato per parlare del suo libro e per fare il punto sulla politica militare mondiale ed il ruolo di Usa ed Israele sullo scenario globale.

Fabrizio Di Ernesto (ASI): Di recente ha scritto un saggio sullo strettissimo rapporto esistente tra Usa ed Israele. Ce ne vuole parlare?

Francesco Brunello Zanitti: La mia ricerca considera un particolare aspetto caratterizzante la speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, particolarmente evidente durante l’amministrazione di George W. Bush. Il saggio, analizzando le differenti origini storiche e ideologiche, nonché i difformi retroterra culturali dei due movimenti, ha come obiettivo la ricerca delle principali similitudini e differenze tra i due gruppi politici, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e del ruolo di Stati Uniti e Israele nel mondo, teorizzata e successivamente adottata da neocons e rappresentanti del Likud una volta raggiunto il potere. Le finalità di questo libro non sono quelle di presentare un programma politico comune o un disegno cospirativo dei due movimenti; oggetto di questa ricerca è l’analisi storica di neoconservatorismo e neorevisionismo, mettendo a fuoco le cause che hanno portato alla loro ascesa politica. In seguito si è cercato di comparare i due gruppi, individuando le possibili conseguenze derivate dalla loro influenza esercitata sulla politica estera di Stati Uniti e Israele. La conclusione del mio saggio considera gli effetti negativi derivati dalla concreta messa in pratica degli ideali neoconservatori e neorevisionisti nella passata e attuale situazione vicino-orientale. Ad esempio, l’influenza politica dei due gruppi nelle relazioni internazionali ha generato un aumentato sentimento di diffidenza e sfiducia tra Stati Uniti e Israele da una parte e mondo arabo e musulmano dall’altra. Una delle cause di questa contrapposizione è derivata dall’ideologia fortemente intrisa di pessimismo e dall’autopercezione del carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, una visione inculcante un mondo contraddistinto da continue minacce e paure per la propria esistenza. A questo proposito, a conclusione del mio saggio, sostengo un ideale maggiormente aperto al dialogo interculturale, contrapposto alla teoria dell’inevitabile scontro tra civiltà proposto dal neocon Huntington. I due movimenti, in particolare il neoconservatorismo, sono caratterizzati dalla volontà di esportare forzatamente a determinate culture il proprio sistema di valori, tentando di eliminare quelli autoctoni senza tener conto delle conseguenze. Questo elemento è comunque in parte riscontrabile anche nel sistema statunitense generale, non solo in quello neocon. La mia opinione è che una determinata civiltà, con tutti i limiti insiti in questo termine, dei quali si potrebbe discutere a lungo, rappresenti un qualche cosa di peculiare, ma assolutamente non portatrice di caratteri universali da imporre ad altre culture. So bene che una simile visione potrebbe essere considerata utopistica e riconosco la sua difficile messa in pratica. Ritengo però che una politica che si basi sulla violenza continuata, rappresentata non solo dal conflitto armato, ma anche dall’imposizione di determinati valori, sia alla fine una via più semplice e banale, ma foriera di conseguenze negative. Penso comunque che il possibile declino statunitense e la nascita di un mondo multipolare possa andare nella giusta direzione. Bisognerà attendere gli sviluppi futuri e capire se gli Stati Uniti accetteranno il declassamento, condizione che, secondo il mio punto di vista, si pone in netto contrasto rispetto alla tradizionale autopercezione del proprio carattere missionario, salvifico per l’intera umanità; sono pessimista, inoltre, per quanto riguarda Israele: il rafforzamento negli ultimi anni dei gruppi più intransigenti del sionismo che hanno come obiettivo storico la creazione della “Grande Israele” dal Giordano al Mediterraneo, rappresenta un serio ostacolo alla pace in Vicino Oriente.

Perché la lobby ebraica è così potente a Washington?

Il sostegno statunitense nei confronti d’Israele non si spiega solamente in termini di strategia geopolitica. Lo Stato ebraico si trova naturalmente in una posizione fondamentale nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo e gli interessi statunitensi nella regione sono collegati alla sicurezza d’Israele. Molto spesso, inoltre, il legame tra i due paesi è stato giustificato in base a criteri di carattere morale e religioso: negli Stati Uniti si sente sovente parlare di Israele come unica democrazia della regione, dunque da difendere per i suoi caratteri similari agli ideali statunitensi; oppure che gli ebrei hanno tanto sofferto nel passato e quindi devono essere difesi dagli attacchi contemporanei; infine, si utilizza la religione e la Bibbia, in un paese ancora profondamente sensibile ai temi religiosi, per spiegare il diritto riservato al popolo ebraico di difendere il proprio Stato, erede diretto dell’antico Regno d’Israele biblico. In realtà, penso che tutte queste motivazioni, tranne quella legata alla strategia geopolitica, siano sovente utilizzate retoricamente ed enfatizzate in particolare da gruppi politici come quello neoconservatore, in modo da giustificare determinate politiche altrimenti difficilmente realizzabili. Come ricorda nella sua domanda, esiste, infatti, una potente lobby filo-israeliana a Washington, la quale influenza direttamente la politica estera statunitense in Vicino Oriente. I suoi intenti hanno avuto buon fine a seconda dei periodi storici e in base alla positività o meno delle relazioni israelo-statunitensi. La lobby rappresenta una serie di individui e organismi molto potenti per i mezzi economici a disposizione, i quali controllano numerosi mezzi di comunicazione, tv, radio, giornali, periodici, circoli universitari e sono organizzatori di numerose conferenze e think tank. La mia opinione è che non si tratti di una società segreta che controlli interamente la politica statunitense. Essa pubblicizza la propria azione nel paese, basta consultare il sito ufficiale dell’AIPAC (The American Israel Public Affairs Committee) o quello dell’American Jewish Committee. Non ritengo che la poltica nordamericana sia influenzata solamente da questa lobby, poiché esistono, infatti, numerosi altri gruppi di pressione che influenzano l’amministrazione degli Stati Uniti; quella pro-israeliana è comunque una delle più potenti e ha sovente messo in difficoltà le amministrazioni del paese, sia repubblicane che democratiche. Durante l’ascesa neoconservatrice l’influenza della lobby si è fatta sentire decisamente. Bisogna considerare, inoltre, che la comunità ebraica più numerosa, dopo quella d’Israele, si trova negli Stati Uniti. Il problema dell’intera questione deriva dal fatto che non si può parlare apertamente della lobby israeliana e delle potenziali conseguenze negative derivate dalla sua eccessiva influenza nella politica statunitense, poiché si è incolpati di antisemitismo o di sostenere posizioni contrari all’esistenza di Israele. Come dimostro nel mio libro, è la stessa retorica accusa adottata costantemente da neocons e neorevisionisti per chiunque critichi le azioni violente di Israele, utilizzata per evitare il dibattito e il dialogo aperto.

Lo stato di Israele è nato grazie al sostegno di Usa, Urss ed Inghilterra. Come mai il paese si è progressivamente allontanato dal colosso comunista?

L’appoggio sovietico nei confronti del piano di spartizione della Palestina nel 1948 e della conseguente nascita dello Stato d’Israele era giustificato in base a criteri di carattere geostrategico. L’Urss aveva come obiettivo primario il consolidamento della propria influenza nell’area vicino-orientale, sostituendo potenzialmente la Gran Bretagna nella regione, in seguito alla fine del proprio mandato in Palestina. Un’eventuale alleanza con il futuro Stato ebraico avrebbe potuto garantire dei vantaggi in termini geopolitici per Mosca. Il successivo allontamento tra Israele e Unione Sovietica derivò dal sempre più forte legame che le autorità israeliane stabilirono con gli Stati Uniti, i quali individuarono in Israele un importante alleato nel contesto della Guerra Fredda in un’area strategica per le importanti risorse energetiche. La guerra di Suez del 1956, durante la quale Israele contò sul fondamentale sostegno di Francia e Gran Bretagna, rappresentò il momento culminante dell’allontanamento diplomatico tra Mosca e Tel Aviv. E’ da precisare comunque che in questo periodo Israele e Stati Uniti non erano ancora strettamente legati, come invece avverrà nei decenni successivi. Eisenhower fu particolarmente critico nei confronti di Israele per la guerra di Suez; gli Stati Uniti non sostennero militarmente Israele in quell’occasione e, nel caso in cui Tel Aviv non si fosse ritirata da tutti i territori egiziani occupati durante il conflitto, l’amministrazione nordamericana avrebbe interrotto tutti gli aiuti economici garantiti allo Stato ebraico. In questa fase storica gli Stati Uniti, dopo il crollo anglo-francese in seguito alla guerra di Suez, erano intenzionati a controbilanciare l’influenza sovietica come unici rappresentanti del mondo occidentale e non intendevano ancora abbandonare il mondo arabo. Ben Gurion era personalmente un ammiratore degli Stati Uniti e promosse negli anni successivi la creazione di uno stretto legame con Washington, coronato pochi anni dopo. L’alleanza israelo-statunitense crebbe considerevolmente a partire dagli anni ’60, con il contemporaneo ulteriore peggioramento delle relazioni tra Israele e URSS. Quest’ultima aveva cominciato a creare dei canali privilegiati con il mondo arabo, in particolare con l’Egitto di Nasser e la Siria, sostenuti in termini economici e militari. Il legame tra Egitto e URSS e l’influenza strategica sovietica sui paesi arabi in generale crebbe ancora di più dopo il 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni, in seguito alla quale l’URSS e il blocco orientale ruppero le relazioni diplomatiche con Israele. In questo modo l’Unione Sovietica si ergeva a baluardo degli interessi arabi, controbilanciando l’appoggio economico, militare e internazionale degli Stati Uniti nei confronti d’Israele. L’allontamento tra quest’ultimo e l’URSS è dunque strettamente legato al contesto della Guerra Fredda e alla competizione geopolitica tra le due superpotenze.

Alcuni commentatori parlando dell’entità sionista usano il termine Usreale, secondo lei è corretto utilizzare questa terminologia?

Questa definizione non mi convince e non penso sia corretto utilizzarla. Come ho ricordato in precedenza, gli Stati Uniti non hanno avuto un tipo di rapporto con Israele dalle caratteristiche costanti. Nonostante l’attuale legame israelo-statunitense sia sicuramente una speciale alleanza, non ritengo adatto l’utilizzo di questo termine per descrivere lo Stato ebraico, nonostante l’esistenza stessa del paese sia garantita in gran parte dalla protezione economica e militare di Washington. In realtà penso che il legame tra i due paesi, particolarmente durante l’ascesa neocon, sia caratterizzato paradossalmente da una maggiore influenza di Tel Aviv nei confronti degli Stati Uniti. Ritengo questa terminologia troppo semplificatoria, se si considera l’attivismo nelle relazioni internazionali d’Israele. Tel Aviv ha attualmente una serie di importanti rapporti diplomatici con diversi paesi a livello mondiale, anche con il mondo arabo, attivate con quest’ultimo sia nel presente che nel passato, se si pensa all’asse Ryad-Tel Aviv in funzione anti-iraniana, o ai legami con l’Egitto di Mubarak. Non ritengo gli Stati Uniti, nonostante abbiano grandi responsabilità, i soli artefici dell’attuale situazione in Vicino Oriente e dell’abbandono del popolo palestinese. Già nel 1948, infatti, re Abdullah I di Transgiordania (l’attuale Giordania), non ancora filo-statunitense, discuteva con il neonato Israele di una possibile spartizione della Cisgiordania, divisione poi tramontata per le possibili ripercussioni negative nell’opinione pubblica araba. Il discorso sulle responsabilità internazionali dell’intera vicenda riguardante il conflitto arabo-israeliano-palestinese e il sostegno alle politiche dello Stato ebraico, a mio parere, riguarda un ampio contesto storico, durante il quale le relazioni internazionali hanno subito delle modifiche. Senza dubbio si può parlare di una speciale e unica relazione tra Israele e Stati Uniti, sempre tenendo presente l’ambito storico e i rispettivi gruppi politici al potere. I neocons e i neorevisionisti hanno enfatizzato questa relazione, mentre, ad esempio, durante gli anni ’90 gli Stati Uniti imposero a Israele per i propri interessi geopolitici i negoziati di pace, poi tramontati.

È opinione comune dire che Israele rappresenti l’unica democrazia del medioriente. A suo modo di vedere ciò concorda con la definizione classica di democrazia?

Per quanto riguarda Israele, la definizione dello Stato ebraico come unica democrazia del Vicino Oriente è stata sovente utilizzata retoricamente come giustificazione offerta all’opinione pubblica statunitense ed europea per l’appoggio alle politiche israeliane. Personalmente ho dei dubbi a riguardo dell’effettivo carattere democratico d’Israele. A sostegno di questa tesi non prendo solamente in considerazione la discriminazione nei confronti degli arabi che avviene all’interno dello Stato ebraico o gli intenti volti all’annessione di gran parte della Cisgiordania con la continua colonizzazione in violazione delle risoluzioni internazionali. Come punto di riferimento ricordo la vicenda legata al “conflitto” esistente tra “nuovi storici” israeliani e vecchia storiografia, riguardante il revisionismo storico sulla nascita dello Stato, il conflitto con il mondo arabo, nonché il dibattito sull’Olocausto e il sionismo, argomento di una mia ricerca alcuni anni fa. A questo proposito prendo in considerazione la vicenda di Ilan Pappe, storico israeliano, il quale ha sostenuto il fatto che Israele sia una democrazia incompiuta. A questo proposito concordo con la sua visione, dal momento che Pappe, per aver messo in discussione il sionismo, considerato Israele una potenza coloniale e messo in luce, attraverso una documentata e ricca ricerca storica, l’avvenuta pulizia etnica dei palestinesi a partire dal 1948, ha subito un violento boicottaggio, unito alla diffamazione da parte del mondo accademico e di gran parte della società. Oggi Pappe lavora in Inghilterra perché gli è impedita una serena ricerca nel suo paese; in Israele non è possibile mettere in discussione determinate questioni; se gli stranieri che criticano Israele sono considerati antisemiti, in patria i critici israeliani o del sionismo sono visti come dei traditori della patria perché alcuni argomenti sono considerati tabù. In questo modo il pluralismo di idee, nonostante ufficialmente Israele sia considerata una democrazia, è palesemente impedito tanto da mettere in discussione il carattere effettivamente democratico del paese.

A settembre la Palestina chiederà il riconoscimento ufficiale come Stato. Secondo lei quale sarà l’atteggiamento del Palazzo di vetro?

Ritengo che la richiesta palestinese non verrà accolta totalmente, dal momento che molto probabilmente gli Stati Uniti porranno il veto in Consiglio di Sicurezza. Potrebbe esserci da parte dell’Assemblea Generale una proposta che conceda la condizione di “Stato osservatore” alla Palestina o la sua inclusione in alcune organizzazioni legate alle Nazioni Unite. Pochi mesi fa Netanyahu ha sostenuto che Israele non ritornerà mai ai confini precedenti al 1967, rispondendo a una richiesta in tal senso di Obama. Ciò dimostra, unitamente all’intransigenza del capo del Likud, la distanza tra l’amministrazione democratica e l’attuale premier israeliano; credo comunque che sia altamente improbabile che gli Stati Uniti si discostino totalmente da una politica filo-israeliana e appoggino le richieste palestinesi. Per quanto riguarda Israele non stupisce che a poche settimane dalla richiesta palestinese all’ONU siano ricominciati gli scontri con Hamas a Gaza, dai quali naturalmente possono derivare implicazioni positive solamente per Tel Aviv, non certo per la questione palestinese, né soprattutto per la popolazione di Gaza. Anche la Germania, paese membro quest’anno del Consiglio di Sicurezza, si è espressa a sfavore della richiesta palestinese, chiedendo da parte delle autorità palestinesi un riconoscimento preventivo d’Israele. Nonostante ritenga che la domanda non verrà accolta, potrebbe essere una buona occasione affinché la questione palestinese riacquisti risalto a livello internazionale. Potrebbe essere una valida opportunità per valutare l’azione del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) dal momento che sia l’India sia il Brasile sono presenti nel Consiglio di Sicurezza e tutte e cinque i paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese in seguito alla dichiarazione d’indipendenza palestinese nel 1988. Anche se attualmente si tratta di un organismo principalmente economico, una comune azione politica futura da parte dei paesi emergenti a favore della Palestina, contemporaneo all’attuale fase di declino degli Stati Uniti, potrebbe risultare positiva; resta da capire comunque se esistano dei margini di manovra comune e dei risvolti geopolitici che favoriscano l’azione dei paesi in questione; altrimenti l’appoggio nei confronti dei palestinesi non ci sarà neanche da parte del BRICS.

Gli Usa appaiono una potenza in lento declino, anche le ultime disavventure legate al rischio default sembrano confermarlo. A suo dire lo storico alleato potrebbe risentire dell’indebolimento di Washington? E, se sì, in che misura?

Penso che Israele potrebbe subire delle conseguenze negative durante l’attuale fase di lento declino statunitense. Gli USA garantiscono non solo un importante appoggio morale e militare, ma anche economico. Gli Stati Uniti sembrano maggiormente inclini a considerare i propri interessi nazionali, come dimostra la recente intenzione di abbandonare l’Afghanistan. Bisogna comunque valutare gli effetti della crisi nei prossimi anni e chi vincerà le elezioni nel 2012. Sarà necessario capire quale indirizzo percorrerà il partito repubblicano, poiché, nonostante il neoconservatorismo sia sicuramente un movimento in declino, non è detto che non ritorni in auge. Collegandomi a questo aspetto ho comunque dei dubbi circa il fatto che gli Stati Uniti abbandoneranno facilmente il proprio ruolo di superpotenza, data la propria autopercezione di eccezionalità e il compito missionario che pensano di ricoprire a livello mondiale. Nonostante la crisi economica statunitense sia evidente e molto pesante, ritengo che Washington stia comunque cercando di mantenere il proprio ruolo globale, riscontrabile ad esempio nel tentativo di ridisegnare il Nord Africa e il Vicino Oriente, vedi i recenti casi libico e siriano, mantenendo un occhio di riguardo per il proprio alleato nell’area. Israele probabilmente non verrà più sostenuto mediante costose campagne militari, ma con altri mezzi, in modo da difendere gli interessi israeliani e statunitensi e per impedire il lento declino di Washington. L’aspetto dell’eccezionalismo statunitense, nonostante abbia una forma diversa a seconda dei periodi storici, è un elemento identitario molto forte negli Stati Uniti e non credo venga abbandonato tanto facilmente.

In che modo il neoconservatorismo e il neorevisionismo hanno influito nello scontro con altre culture?

L’autopercezione dell’assoluto carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, unito alla considerazione della propria indispensabilità e superiorità morale rispetto alle altre nazioni che giustificano un’ingerenza interna nei confronti degli altri Stati, così come l’idea di essere esenti da quelle leggi inesorabili della storia, sono tutti elementi che hanno influenzato direttamente la politica estera di questi paesi e generato uno scontro con il mondo arabo e musulmano. Altri aspetti peculiari dei due movimenti e forieri di conseguenze negative sono la considerazione positiva delle azioni militari unilaterali, anche preventive, in difesa da determinate minacce, come ho cercato di dimostrare nel libro, esageratamente enfatizzate al fine di creare un clima di terrore adatto all’accettazione da parte dell’opinione pubblica di determinate politiche. Questo potere è stato utilizzato soprattutto per nascondere precisi obiettivi geostrategici: le guerre statunitensi in Afghanistan e Iraq avevano il chiaro intento di stabilire delle basi militari USA in territori strategici per i corridoi energetici e fondamentali per il contenimento di Cina, Russia e Iran. In questo caso il progetto egemonico statunitense non riguarda solamente i neocons. Una possibile interpretazione di quello che sta accadendo in Pakistan, paese nel caos per le violenze interetniche, ma anche per le dirette conseguenze dell’invasione afghana del 2001, è, a mio parere, un chiaro esempio delle volontà egemoniche statunitensi. Ho tentato di spiegare alcuni aspetti della questione in un articolo pubblicato recentemente sul sito di “Eurasia” (http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Gli stessi intenti egemonici sono presenti nel neorevisionismo israeliano. Unito al potere della paura esiste l’enfatizzazione dell’odio nei confronti del nemico che ha spesso valori diversi: quello esterno, i sovietici durante la Guerra Fredda o i musulmani in generale dopo l’11 settembre per gli Stati Uniti; gli arabi, i palestinesi e i paesi favorevoli all’indipendenza della Palestina per Israele; ma anche interno, in entrambi i paesi i critici dei rispettivi movimenti erano descritti come traditori della patria. Ho cercato di dimostrare come i progetti egemonici di neocons e neorevisionisti abbiamo comportano non solo dei conflitti militari, ma anche un potenziale scontro tra culture diverse. Dunque ciò che sosteneva Huntington, ovvero che la fine della Guerra Fredda avrebbe generato uno scontro tra civiltà, è stato in realtà favorito dalla successiva azione statunitense e israeliana. Mi si potrà obiettare che considero solo l’azione negativa messa in atto da parte di Stati Uniti e Israele. Ritengo che questi due paesi siano i maggiori responsabili per il recente “scontro” con il mondo arabo e musulmano perché hanno ricoperto il ruolo del più forte, avendo avuto a disposizione potenti mezzi economici e militari.

Il significato geopolitico di Bushehr: D. Scalea al “Secolo d’Italia”

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato interpellato da Annamaria Gravino per “Il Secolo d’Italia” a proposito dell’inaugurazione della centrale nucleare iraniana a Bushehr. L’articolo, pubblicato sul quotidiano il 13 settembre 2011, è riprodotto di seguito.

 
Dopo 36 anni di tentativi falliti, allarmi e minacce, ieri, a Bushehr, l’Iran ha inaugurato la sua prima centrale nucleare. La reazione nella comunità internazionale è stata minima: nulla di paragonabile al clamore che ha accompagnato il programma atomico della Repubblica islamica negli anni e, in particolare, da quando al potere c’è Ahmadinejad.
Vi sarebbero precise ragioni geopolitiche, che si riassumono nel tentativo di allentare le tensioni con Teheran. Si tratterebbe di un’azione combinata e sottotraccia che coinvolge principalmente Usa e Russia. A spiegarlo è il segretario scientifico dell’Isag, l’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, Daniele Scalea. In quest’ottica, dunque, la presenza all’inaugurazione del ministro dell’Energia russo, Sergei Shmatko, e del capo dell’agenzia atomica russa, Sergei Kiriyenko, non era legata al solo fatto che sono loro a fornire le materie prime. «Da parte della Russia – ricorda Scalea – negli ultimi anni c’era stata una chiusura quasi totale verso il programma atomico iraniano, ora l’apertura della centrale rappresenta un’improvvisa accelerazione». A questo va aggiunta la proposta di Mosca di creare una sorta di reciprocità tra iraniani e comunità internazionale: a ogni passo compiuto da Teheran potrebbe corrispondere un alleggerimento delle sanzioni. Un approccio decisamente più soft dell’aut aut attuale, per cui o l’Iran accetta il pacchetto completo o non se ne fa nulla. Scalea mette in guardia sulle difficoltà di capire i russi fino in fondo, ma spiega che un aiuto per leggere il loro atteggiamento viene da Washington: «La mia impressione è che gli Stati Uniti non abbiamo più intenzione di spingere troppo sull’Iran, hanno i loro problemi interni e Obama è propenso ad allentare le tensioni». Dunque, l’accelerazione dei russi sarebbe il frutto di una strategia condivisa con la comunità internazionale. Dialogando con Teheran, Mosca starebbe facendo quello che nessun altro può fare, ma che tutti auspicano. «E va ricordato – prosegue Scalea – che loro forniscono il combustibile nucleare e poi se lo riprendano, in modo che non possa essere utilizzato a fini militari». In questo quadro, però, «c’è sempre chi potrebbe far saltare il banco». «Israele come la prenderà?», domanda lo storico ed esperto di geopolitica, ricordando che «in questo momento tra Tel Aviv e gli Stati Uniti ci sono forti divergenze di opinione anche sulla primavera araba e sull’appoggio di Washington alle correnti islamiste». «Gli Stati Uniti – conclude Scalea – cercano di chiudere il dossier iraniano, ma Israele potrebbe essere tentata di riaprirlo e, in quest’ottica, va anche letto il monito di Sarkozy su un attacco preventivo all’Iran».

“Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo” a Brescia

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Si è tenuta sabato 17 settembre 2011 (ore 15.30) a Brescia, presso il Best Western Hotel Master di Via Luigi Apollonio 72, la conferenza “Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo”.

Sono intervenuti come relatori: Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG), Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG, co-autore di Capire le rivolte arabe), Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”, autore di Turchia, ponte d’Eurasia) e Stefano Vernole (redattore di “Eurasia”).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Nuove Idee” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Di seguito il video integrale dell’evento.

 
Prima parte:

Seconda parte:

P. Buttafuoco recensisce “Capire le rivolte arabe” su “Panorama”

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Pietrangelo Buttafuoco ha recensito la pubblicazione dell’IsAG Capire le rivolte arabe, di Pietro Longo e Daniele Scalea, nel n. 40 del 28 settembre 2011 della rivista “Panorama”. Di seguito l’articolo pubblicato dal periodico:

 
A pochi passi da casa nostra si sta facendo la storia. Capire le rivolte arabe non è solo un imperativo che ci riguarda, ma anche il titolo di un libro proprio necessario. È quello di Pietro Longo e Daniele Scalea, due studiosi orientalisti e non due generici “analisti” improvvisati, quelli che dai giornali ancora prima di verificare notizie e accadimenti fanno da mosche cocchiere alla xenofobia e all’islamofobia.
Quello che sta succedendo vicino a noi, dal Bahrain alla Libia, viene spiegato incrociando dati, cifre, verifiche economiche e, ovviamente, illustrando le specificità culturali di un mondo che non è speculare rispetto ai pregiudizi che ci siamo costruiti.
È dunque un lavoro neutrale per come può essere considerato tale una ricerca scientifica.
Particolarmente interessanti i capitoli sugli scenari futuri.
È edito dall’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, e non si tratta di esercitazioni scritte sull’acqua ma di una fotografia presa dal vero.

L’IsAG al convegno internazionale “La Romania e i diritti umani”

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Si è tenuto sabato 24 settembre a Torino, dalle ore 9.30 alle ore 18, il convegno internazionale italo-romeno “La Romania e i diritti umani”, presso il Centro Congressi Regione Piemonte di corso Stati Uniti 23.

L’organizzazione è stata a cura di Regione Piemonte, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), Poesia Attiva, Ufficio Pastorale Migranti, AIDA, Accademia di Romania in Roma.

Cliccare qui per scaricare la brochure di presentazione, col programma completo, in pdf.

Capire le rivolte arabe: P. Longo e D. Scalea intervistati da “Il Democratico”

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Il segretario scientifico Daniele Scalea e il ricercatore Pietro Longo sono stati intervistati da Giacomo Guarini per “Il Democratico” a proposito del loro ultimo libro, Capire le rivolte arabe, pubblicato col marchio dell’IsAG. L’articolo originale può essere visto cliccando qui. Di seguito la riproduzione.

 
Il Vicino Oriente è un’area geografica sempre al centro dell’attenzione da parte dei media e degli analisti dei più svariati settori (politico, economico, militare, etc.). I motivi di questo interesse sono in buona parte intuibili: si ha a che fare con un’area tanto strategicamente importante da un lato, quanto instabile e centro di intense conflittualità dall’altro. L’anno in corso è stato caratterizzato da un’attenzione globale ulteriormente accresciuta a causa del vasto e complesso fenomeno di rivolte che ha di fatto attraversato – con forme ed intensità diverse – l’intera regione.
Politici, intellettuali ed opinione pubblica occidentali hanno seguito sin da subito con grande entusiasmo simili fenomeni, vedendo in essi gli effetti di un grande e spontaneo movimento popolare, mosso dal riscatto contro governi autocratici e animato principalmente da giovani generazioni affamate di democrazia e di emancipazione sociale. Da ciò l’uso diffuso di espressioni idealizzanti quali “Primavere Arabe”, “Risorgimento Arabo” e simili.
Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, si constata che molto dell’entusiasmo della prima ora si è smorzato. Diversi fattori possono aver contribuito a ciò; fra questi, il ‘congelamento’ della rivoluzione in Tunisia ed Egitto, così come il prolungarsi della guerra in Libia; un conflitto questo ben più lungo e travagliato di quanto le dichiarazioni d’intenti iniziali avessero potuto far credere. Più in generale, l’intero evolvere degli eventi nell’ area vicinorientale ha infine mostrato, in maniera inequivocabile, come i fenomeni in questione siano molto più complessi e sfaccettati rispetto al quadro dipinto dai media, pieno invece di retorica e semplicismo.
Due giovani studiosi hanno provato a fare il punto della situazione con un saggio eloquentemente intitolato “Capire le rivolte arabe” (Avatar Editions). Daniele Scalea e Pietro Longo, questi i nomi degli autori, hanno una formazione accademica rispettivamente nel campo della storia e dell’arabistica; inoltre si occupano entrambi di geopolitica, in particolare per la rivista Eurasia, di cui sono redattori. Il saggio in questione si presenta di grande utilità per chiunque voglia orientarsi nella complessità dei rivolgimenti in corso nel mondo arabo, dal momento che analizza in maniera sintetica ma rigorosa le dinamiche di breve e lungo periodo sottese ai fenomeni rivoluzionari, tratteggiandone inoltre in maniera convincente diversi possibili sviluppi futuri.
Oggi più che mai assume grande importanza una conoscenza basilare della realtà mediterranea e vicinorientale, tanto più in un paese come il nostro che, pur se legato all’area politico-culturale nord europea ed atlantica, si trova quasi interamente disteso al centro del Mediterraneo; da una tale posizione, l’Italia non può trascurare le realtà dell’altra sponda di quello che fu il mare nostrum, né tantomeno fingere di ignorarne i problemi salvo – in quest’ultimo caso – subirne in maniera ancora più brusca e traumatica i contraccolpi, come ci ricordano i due studiosi. Ci auguriamo quindi che, grazie anche alla diffusione di opere come quella di Longo e Scalea, possa maturare una diffusa consapevolezza della necessità di abbattere quell’invisibile muro politico-culturale che ci separa dal mediterraneo extraeuropeo.
Abbiamo incontrato i due autori del testo per porgli alcune domande sui fenomeni oggetto del loro studio.

Una fondamentale chiave di lettura offerta dal vostro lavoro per cercare di spiegare i fenomeni in corso è quella del dirompente affermarsi dell’Islam politico a scapito di un nazionalismo arabo oramai in declino. Potete spiegarne in breve il significato? Pur nelle loro specificità e differenze, possono trovare coerente inquadramento entro questa lettura anche i due scenari di crisi attualmente più seguìti ed incerti dell’area, quello siriano e quello libico?

Daniele Scalea: Poniamo come premessa che nell’Islam non esiste la “separazione tra Stato e Chiesa” come da noi, e quindi la distinzione tra movimenti laici e movimenti religiosi è per certi versi arbitraria. Ciò detto, è lecito parlare di contrapposizione tra un nazionalismo laico, spesso panarabo, ed una corrente religiosa, talvolta indicata come “Islam Politico” o “islamismo”. Se il nazionalismo laico ha prevalso nei primi decenni del dopoguerra, esso è da tempo in fase calante: fallimentare, delegittimato ed impopolare, sta lasciando spazio all’ascesa dell’Islam Politico.
Ciò avviene, o potrebbe avvenire, anche in Libia e Siria. Probabilmente Gheddafi non sarebbe mai stato rovesciato senza l’intervento straniero, ma questo c’è stato ed ora le porzioni più ricche e popolose del paese sono in mano ai ribelli, per lo più islamisti. Ad esempio il governatore di Tripoli, Abdelhakim Belhadj, è un veterano dell’Afghanistan: vi ha combattutto sia contro i Sovietici sia contro gli Angloamericani. Molti osservatori già da mesi indicavano nel Gruppo Islamico Combattente Libico (già affiliato a Al Qaida) la forza militarmente più significativa del CNT. Per quanto riguarda la Siria, tra gli oppositori più importanti va citata la Fratellanza Musulmana e, ancor più, i gruppi cosiddetti “salafiti”, o anche wahhabiti, che spesso si sono formati militarmente combattendo in Iraq contro gli USA.

Pietro Longo: Non bisogna cadere nell’eccesso di semplificazione: ciò che è avvenuto nel mondo arabo lungo quasi tutto il 2011 non è un duplice movimento di discesa delle ideologie nazionaliste e di ascesa di quelle informate all’Islam. Personalmente ho sempre contestato una separazione così netta tra queste due correnti e questo perché, a parte rari casi, nel mondo islamico il nazionalismo non si è mai qualificato totalmente come laico, al pari dell’omologo movimento europeo. Ciò detto, è pacifico che lungo questo primo decennio del XXI secolo abbiamo conosciuto un progressivo “risveglio islamico”, anche sottoforma di “rivincita sciita” a seguito di ben precisi accadimenti, come l’invasione US-led di Afghanistan e Iraq entro il primo quinquennio o lo sconfinamento in Libano dell’Israel Defence Force nel 2006. Tuttavia nel caso delle “rivolte arabe” bisogna certamente usare cautela e distinguere ogni scenario da qualunque altro. L’esempio egiziano è emblematico in ciò: una rivolta di piazza, scaturita dal malcontento di molteplici sfaccettature sociali, è stata senza dubbio cavalcata dalle forze islamiche, organizzatesi secondo nuovi partiti e associazioni, come il Partito Libertà e Giustizia affiliato alla Fratellanza Musulmana. In Tunisia, nel contesto dell’ipertrofia dei partiti politici, è stato reso legale il maggiore partito di opposizione, ossia al-Nahda dello Shaykh Rashid al-Ghannushi. Questo però può non implicare necessariamente che le frange politiche islamiche siano state le protagoniste della rivolta e potrebbe non essere nemmeno una garanzia per il futuro. Dopo una frattura più o meno violenta, entro qualsiasi ordinamento il potere politico dà luogo a fenomeni extra ordinem, non previsti da nessuna fonte normativa ma che si impongono di fatto. Non sembra casuale che, tornando al caso egiziano, il Partito Libertà e Giustizia si sia formato nel febbraio scorso ovvero prima che la Costituzione interinale adottata in aprile giungesse a vietare all’articolo 5 la formazione di partiti su base eminentemente religiosa.
Quanto ai casi della Libia e della Siria, siamo dinnanzi ad altri due scenari particolari. Nel primo il Consiglio Nazionale di Transizione appare formato da personalità eterogenee organizzatesi nell’area di Bengasi. Mustafa ‘Abd al-Jalil, ex Ministro della Giustizia dal 2007 e segretario del Consiglio Nazionale è un giudice proveniente dalla Facoltà di Shari’a degli atenei di Bengasi e di al-Bayda’. Ma questo fatto non è rivelatore di alcunché di specifico data la poca chiarezza sul programma politico dei “ribelli”, per il momento abbarbicati unicamente su posizioni anti-Gheddafi. La Costituzione interinale diffusa nell’agosto scorso poco ci suggerisce, salvo fissare la Shari’a come “la” fonte principale dell’ordinamento, come del resto nel caso egiziano, e informare l’educazione delle nuove generazioni allo spirito islamico e all’amore per la patria. Sarà necessario osservare come queste dichiarazioni di principio si tradurranno in politiche operative.
Infine in Siria, è vero che la Fratellanza Musulmana lavora quotidianamente per screditare il regime di al-Asad ma i comunicati e le dichiarazioni non sono improntante alla dialettica nazionalismo/secolarismo vs islamismo. Piuttosto si focalizzano unicamente sulla condanna alle stragi compiute dall’esercito e dunque alla perdita di legittimità dell’establishment al potere.

Sin dall’inizio dei disordini, abbiamo assistito a continue e gravi storture dell’informazione sui fatti di Libia e Siria, e per contro a prolungati silenzi sulle proteste in altri paesi quali Arabia Saudita, Bahrayn e Yemen.
Aspetto particolare è che questo atteggiamento non ha caratterizzato i soli media occidentali, ma è spesso partito proprio dai grandi mezzi di informazione panaraba quali Al Jazeera e al Al Arabiya. A quali logiche è ragionevole pensare che stiano rispondendo tali mezzi di informazione nelle crisi in corso?

DS: Come qualsiasi altro organo di stampa, alle logiche dei loro editori: ossia, rispettivamente, di Qatar e Arabia Saudita, ossia della famiglia Al Khalifa e della famiglia Saud. Entrambi i paesi – o meglio sarebbe dire le famiglie che non solo li dominano, ma li posseggono formalmente – nutrono ambizioni di potenza nella regione. L’Arabia Saudita ha un’ideologia ufficiale che è il wahhabismo, e s’impegna a diffonderlo nel mondo musulmano grazie ai petrodollari che affluiscono numerosi nelle casse del Regno. Il Qatar ha un’immagine più moderna ed una dimensione decisamente più piccola, ma è anch’esso molto ricco ed ha investito sui media come veicolo per procacciarsi influenza, e quindi potere, nella regione ed oltre (non a caso Al Jazira trasmette pure in inglese).

PL: I cosiddetti “media panarabi” hanno avuto un ruolo significativo in molteplici occasioni: durante gli eventi subito successivi al 9/11, durante la “caccia a Bin Laden” ed in generale nel corso della Global War on Terrorism, in diversi momenti della questione israelo-palestinese, nel caso dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq e così via. A volte al-Jazeera ha ricevuto le aspre critiche dell’opinione pubblica mondiale per la messa in onda di immagini particolarmente cruente o per la diffusione di notizie che potevano fungere da propellente ed infiammare gli animi. Nel caso della “primavera araba” questi network non sono stati meno presenti nei diversi scenari ed è sembrato che abbiano seguito delle agende ben precise. In verità questa critica può essere allargata a tutti i maggiori media globali, probabilmente protesi a confondere le idee sul reale svolgimento degli eventi. Basti pensare all’imprecisione, talvolta iperbolica, con la quale sono state riferite le stime delle morti nei diversi fronti. Nel caso libico però la questione è ancora più delicata, perché il coverage di al-Jazeera che ci ha condotti fin dentro al compound di Gheddafi, poco o nulla ha detto in merito alle casualità di civili procurate accidentalmente dai bombardamenti aerei. Lo slogan “l’opinione e l’opinione contraria” che fino a qualche anno fa era continuamente sbandierato dall’emittente qatarina, questa volta sembrerebbe aver preso delle derive nettamente unidirezionali.

Negli ultimi anni l’Italia sembrava fare passi avanti, pur fra evidenti limiti e contraddizioni, verso una politica di maggiore presenza nel Mediterraneo. Le crisi della regione hanno mostrato in realtà tutta la debolezza politica del nostro paese, che non si è in alcun modo distinto nell’azione politica e diplomatica e che si è lasciato trascinare in una guerra – quella libica – sicuramente non voluta a livello governativo. In che modo l’Italia rischia di pagare, se non lo sta già facendo, la sua impreparazione di fronte ai rivolgimenti dell’area? Nonostante ciò, dispone il nostro paese ancora di spazi di manovra politici anche minimi, atti a limitare i danni derivanti da simili destabilizzazioni?

DS: L’Italia sta pagando la crisi libica in vari modi. Innanzi tutto, ha perduto credibilità: col suo atteggiamento ondivago e col voltafaccia ai danni della Jamahiriya, con annessa sfacciata violazione del Trattato di Amicizia e di proditorio attacco ai danni della Libia. Tutto ciò è andato ad alimentare la leggenda nera – ahimé molto veridica – dell’Italia fellona, inaffidabile e incline al tradimento.
In secondo luogo, ha speso milioni di euro per condurre i bombardamenti contro la Libia e per gestire l’emergenza profughi, o per aiuti umanitari di varia natura.
In terzo luogo, anche nel caso piuttosto remoto che l’ENI mantenga davvero il ruolo di preponderanza che aveva in Libia, come garantisce Frattini, rimane il fatto che il flusso di petrolio e gas dal paese nordafricano non potrà recuperare i livelli precedenti prima di molti anni.
Inoltre, i contratti petroliferi dell’ENI rappresentano solo uno degli elementi di cooperazione economica precedentemente in atto tra Italia e Libia. In particolare, numerose imprese italiane – spesso PMI – ricevevano le commesse della Jamahiriya: inoltre, una parte consistente dei suoi petrodollari (quasi 10 miliardi) era investita nel nostro paese. Sicuramente gl’investimenti esteri libici si sposteranno ancor più decisamente verso la Francia e il mondo anglosassone, e le commesse della ricostruzione post-bellica saranno affidate alle imprese di questi altri paesi, non a quelle italiane.
Infine, in un’ottica strategica, un paese che si trovava nella nostra “sfera d’influenza” sta spostandosi verso quella francese, indebolendo il peso dell’Italia nel Mediterraneo.

PL: Gli storici delle relazioni internazionali rintracciano nella storia moderna del nostro paese tre “cerchi” di politica estera, o meglio due campi d’azione tradizionali ai quali dopo la Seconda Guerra Mondiale se n’è aggiunto un terzo per effetto dell’integrazione europea. Ai consueti spazi “balcanico” e “mediterraneo” si è aggiunto quello propriamente europeo. Come in un gioco di scatole cinesi però a monte di tutto ciò si trova l’altrettanto tradizionale “fedeltà atlantica” legata alla partecipazione alla NATO. I tre cerchi più l’opzione atlantica lungi dal formare un tutt’uno osmotico sembrano più che altro costituire una piramide.
Fuor di metafora, l’Italia ha scelto di imbarcarsi nell’avventura libica, venendo meno ad impegni bilaterali precedenti e scommettendo sul futuro. Nel 2008 l’attuale Premier italiano volava a Bengasi per firmare il Trattto di Amicizia, Partenariato e Cooperazione. A ben vedere però i semi di quel patto risalgono a ben 10 anni prima, quando Lamberto Dini, allora Ministro degli affari esteri, siglò un primo step. L’ENI poi ha sempre avuto un ruolo di primo piano nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici e per converso Tripoli ha posseduto investimenti nella FIAT. Sul versante politico, i due paesi si erano concentrati sulla cooperazione a prevenzione dell’immigrazione illegale (2000) e anti-terrorismo (2002), spianando la strada a quel quadro di “special and privileged relationship” secondo la dicitura ufficiale rimarcata dal Trattato di Amicizia del 2008. Tuttavia, come hanno mostrato i giuristi internazionalisti, quel testo non ha mai avuto la pretesa di fissare norme di “non aggressione” nonostante le clausole che impedivano, reciprocamente, la conduzione di atti ostili a violazione della sovranità territoriale. Ecco dunque perché la diplomazia romana ha potuto inscrivere questo trattato nel cerchio atlantico, senza creare incompatibilità. Finanche gli impegni economici stipulati dal medesimo trattato sono stati talmente onerosi da poter venire giustificati solo alla luce di un rapporto di amicizia sedimentato: l’Italia si impegnava a costruire infrastrutture di base per un valore di 5 miliardi di dollari, ottenendo in cambio sgravi fiscali per le imprese italiane operanti in Libia.
Stando a quanto annunciato nei mesi scorsi, nonostante il regime change il governo italiano considera il Trattato ancora in vigore e quindi si ritiene che, normalizzato il paese, gli impegni contenuti in esso verranno onorati. Bisognerà, anche in questo caso, attendere la fine delle ostilità per comprendere appieno le implicazioni di una mossa, quella italiana, che tutto è apparsa tranne che decisa in autonomia.

“Capire le rivolte arabe” a Firenze

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Si è tenuta giovedì 6 ottobre 2011 alle ore 21, a Firenze presso il Circolo Vie Nuove di Viale Donato Giannotti 13, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe di Pietro Longo e Daniele Scalea, rispettivamente ricercatore e segretario scientifico dell’IsAG.

Sono intervenuti il co-autore Daniele Scalea, Giovanni Armillotta (direttore di “Africana”) e Vincenzo Durante (assistente ordinario, Università degli Studi di Firenze).

L’organizzazione è stata a cura del Circolo Vie Nuove.

Di seguito il video degl’interventi di Alessandro Michelucci (moderatore della serata) e Daniele Scalea, il testo dell’intervento di Giovanni Armillotta ed una cronaca apparsa sul quotidiano “Rinascita”.

 
IL VIDEO

 
L’INTERVENTO di Giovanni Armillotta

Inizierò l’esposizione del volume con un aneddoto. Nell’ottobre 2004 uscì il primo numero di «Eurasia» diretta da Tiberio Graziani, che in seguito s’è affermata – con «Limes», fondata nel 1993 e diretta da Lucio Caracciolo – come una delle due più importanti riviste di geopolitica. A dire il vero ci sono stati altri due tentativi di altrettanti periodici di tenore geopolitico, ma siccome entrambi non erano altro che l’espressione di sette politiche ben precise, essi hanno fallito. È patetico come la geopolitica possa essere considerata alla stregua di banchi di approfondimento di un “pensiero” promanante dalla “destra” o dalla “sinistra” o dai cattolici. Premetto, anzi postmetto, che a “pensiero”, “destra” e “sinistra” ho posto le virgolette. Ribaltando e parafrasando la nota frase di Ernesto Massi, perlomeno dalla seconda metà degli anni Ottanta del sec. XX, l’ignoranza della classe politica italiana ha fatto sì che la geopolitica essa né la praticasse e né la studiasse, delegando il tutto alla Casa Bianca.

La geopolitica non è la fonte delle scelte di politica estera da studiare con stantii parametri partitici e direi, in particolare, squallidi – considerando come opera la politica dei due versi (governativa e d’opposizione) nel nostro Paese – essa geopolitica si pone essenzialmente nei due parametri di valore che sono prassi e dottrine eurasiatista e atlantista. L’eurasiatista è la ricerca della fine della dipendenza dei popoli tellurocratici da quelli talassocratici, che ha definito le relazioni internazionali dalla nascita della potenza marinara inglese, sin da quando la Royal Navy di Elisabetta I sconfisse l’Armada Invencible di Filippo II nel 1588. Egemonia britannica che poi iniziò a declinare non dopo gli esiti della guerra d’indipendenza statunitense dal 1775 al 1783 che anzi rafforzò il “lago” Atlantico – ribellione, quella statunitense, scorrettamente definita rivoluzione, secondo i miei canoni di marxista non pentito che considera la struttura e la sovrastruttura come elementi fondanti dei rivolgimenti politici. La primazìa britannica prese a tramontare da quando gli Stati Uniti d’America uscirono, finalmente preparati al confronto militare, dal guscio della Dottrina Monroe (elaborata difensivamente nel 1823 contro la Santa Alleanza, e usata d’attacco in seguito), e con uno dei loro marchiani pretesti, affossarono i residui dell’Impero Spagnolo con la guerra contro Madrid, aprile-agosto 1898, la cosiddetta splendid little war.

Di conseguenza, oggi, la scelta atlantista, rispettabile e legittima al pari di quella eurasiatista, verte sul dover essere seguaci dell’“eccezionalismo messianico” statunitense sviluppatosi, appunto a partire dai primi insediamenti inglesi nell’America del Nord, nel sec. XVII, e poi del successivo periodo di espansionismo territoriale (riduzione del Messico al 25% della sua originale estensione, suddetta guerra ispano-americana, partecipazione nelle due guerre mondiali, con l’ultima in veste egemonica) fino agli anni della guerra fredda. Infine, dal trentennale periodo che va dalla Presidenza Reagan, 1981, all’11 settembre 2001. Non per nulla l’espressione “destino manifesto” degli Stati Uniti d’America fu coniata nel 1845 nel corso del conflitto che inquartò il Messico e fu poi riattualizzata, negli anni dell’Impero del Male comunista per poi riversarla contro nuovi nemici. Bush figlio si è messo in perfetta sintonia con questa “tendenza messianica” tradizionale, carica di fondamentalismo religioso antistorico, isolazionismo aggressivo in quanto rifiutante la visione paritetica del multilateralismo, teorie e pratiche a cuore sia dei repubblicani che dei democratici, facce diverse della stessa banconota. Lo stesso successore di Bush, e di conseguenza prodotto del grande capitale finanziario statunitense, si sta comportando come il precedessore.

Un’accurata inchiesta, uscita da una casa editrice fiorentina sino al 2005 (Ponte alle Grazie) già dal titolo demolisce le presunte differenze tra il partito repubblicano e quello democratico. Il libro Barack Obush, uscito il 7 luglio 2011, scritto da Giulietto Chiesa con Pino Cabras esplora senza paure tutti gli ultimi avvenimenti della politica internazionale. La manipolazione delle rivolte nel mondo arabo che ci riunisce nell’incontro di stasera; l’aggressione alla Libia, la perdita d’identità e valore dell’Europa in una sorta di silenziosa e rassegnata colonizzazione e trasformazione in melting pot di Serie B, di cui le ricchissime classi politiche sono insensibili; la tenzone con la Cina temuta da Washington sua “erede”, e le crisi dei debiti sovrani sono al centro dei grandi rivolgimenti in atto. Obama non è altro che uno dei migliori alleati dei piani dei neoconservatori. Gli stessi che sognano un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal protagonismo armato degli Stati Uniti, ampliatosi durante la presidenza di Barack Hussein. Un progetto cullato dalla famiglia Bush e portato avanti da Obama. Il democratico è riuscito però a vendersi molto bene dati i luoghi comuni di cui è il massimo portatore nello versione tradizionale: bianco cattivo (Bush figlio), nero buono (Obama), ma entrambi sventolanti lo stars and stripes del capitale finanziario e dell’imperialismo unipolare. Chiudo la parentesi con un esempio emblematico. Non avete mai fatto caso che l’unico Paese al mondo che non ha una ragione sociale e specifica, insomma un nome ristretto, sono proprio i cosiddetti Stati Uniti d’America? Mi spiego: ci sono gli Stati Uniti Messicani, grandi Federazioni, quali Russia, Canada (entrambe di maggior superficie degli Stati Uniti), Brasile, Australia, India, Argentina, Nigeria, come anche di più piccole – basti citare per tutte la Svizzera – però non esiste Stato alcuno che faccia riferimento a una ripartizione zonale che comprenda addirittura un Continente – Stati Uniti d’America. Per cui un domani se col NAFTA si cerca di inglobare – quali colonie commerciali e perché no, politiche? – Canada e Messico, e il resto, quel nome resterebbe immutato. Ed è nello stesso che vigono i propositi di dominio planetario.

A questo punto è bene procedere con l’aneddoto.

Sfogliando il Numero 1, Anno Primo, dell’Ottobre-Dicembre 2004 leggo la formazione del Consiglio dei Redattori di «Eurasia», composto di personalità ampiamente conosciute nel campo della geopolitica: direttore Tiberio Graziani, Aldo Braccio, Aleksandr Gel’evič Dugin, Martin A. Schwartz, Carlo Terracciano e poi notavo il nome di Daniele Scalea, di cui non sapevo assolutamente alcunché. Su quel numero tradusse dal russo il contributo di Dugin, e sul numero successivo (Gennaio 2005) esordì in firma con la recensione di Italia, Germania, e Giappone, scritto dal padre della geopolitica, il tedesco Karl Haushofer (Monaco di Baviera 1869-Berlino 1946); il suo primo articolo vero e proprio apparve sul N. 2/2005 dal titolo Ucraina, terra di confine.

Nonostante cercassi sue biografie, pensavo che non apparisse mai il proprio titolo di studio fra le schede biografiche della rivista, in quanto trattavasi probabilmente di un anzianissimo professore universitario dalla modestia aulica, dal linguaggio stranamente attuale, un vecchio docente forbito che conosceva il russo alla perfezione e tante altre cose. Un giorno parlando con un amico, di cui non faccio il nome, gli chiesi: «Ma mi dici un po’ dove insegna ’sto Scalea?». Mi fa l’interlocutore: «Ah! Ah! Ah! [risata], sta per laurearsi: è uno studente, infatti ha poco più di vent’anni». Vi prego di non osare immaginare come ci rimasi… «Vent’anni???… e quando ha iniziato a studiare, a sei?».

Per cui, complimentandomi con lui e Pietro Longo per il volume, affermo che – per le possibilità concessemi – l’ho consigliato alle cattedre di Afro-asiatici e Paesi islamici, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, cattedre che mi vedono quale uno dei componenti di commissione.

Scalea e Longo, rileggono i problemi della storia recente di tutti i Paesi arabi che si affacciano e non sul Mediterraneo (compresi Giordania e Iraq), chiedendosi, tra le altre cose, perché, malgrado l’allargamento dell’Unione Europea, l’Europa politica assolve nel Mediterraneo un ruolo così tenue, ossia non conta nulla, mentre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti vi esercitano un’egemonia sempre più indiscussa? Come si spiega, in Medio Oriente e nei Paesi arabi, il sorgere e il diffondersi dell’islamismo radicale? Islamismo radicale che, ad esempio, in Siria – attualmente nel mirino di Stati Uniti e sodali (Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.), è il primo, l’islamismo radicale, a schierarsi a favore della Hillary Clinton contro Baššār al-‘Asad? Nel senso come mai la Siria laica che sin dai tempi del padre di Baššār, Ḥāfiẓ, da sempre aveva combattuto finanche la Fratellanza musulmana siriana in quanto anti-baatista d’un tratto è da eliminare? Pure a questa fondamentale domanda, risponde il libro.

Come sostiene il prof. Domenico Losurdo, ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino: terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, odio contro l’Occidente, complicità con l’Islam e contro Israele: queste sono le accuse che l’impero statunitense brandisce come armi affilate. Chiunque non sia con gli Stati Uniti è antiamerikano, con la cappa, nemico della pace e della civiltà.

Questo è un libro, un testo di studio e di critica, che spazia in uno scenario molto ampio, e ci dà chiavi di lettura dei recenti fenomeni che stanno sconvolgendo l’arco mediterraneo meridionale col tentato spaccio delle rivolte antimperialiste e antineocolonialiste mediterranee, dello Yemen, del Bahrein e dell’Oman, in fattori richiamanti masse di musulmani che si sono e si stanno ribellando per auspicare, invece secondo certa stampa embedded-copia-e-incolla, forme di governo liberal-democratiche in cui trionfino gli dèi che vediamo adorare ogni giorno: capitalismo, abolizione dei frutti delle lotte operaie e religione del tecnologismo; o per meglio dirla: a favore dei valori pornografici e cocacolistici dell’Occidente ameriko-franco-britannico. Gli autori mi permetteranno un accenno che vada più lontano. Perché Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia stanno tornando in Nord Africa?

La storia che gli italiani ignorano è nota ai Governi europei, agli statunitensi e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessanta anni. Se in Italia è apparsa marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno ricercate altrove. Ma occorre anzitutto ricordare brevemente i termini della questione. Nell’autunno del 1956, periodo ben analizzato nel volume, il governo francese, presieduto dal socialista Guy Mollet, tirò fuori dal cassetto un vecchio progetto, di cui si era segretamente discusso nei mesi precedenti, e propose a due partner europei (Germania e Italia) un’intesa tripartita per la collaborazione atomica in campo militare.

La proposta fu avanzata dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, in un momento in cui la Francia era impegnata nella guerra algerina e lamentava l’insensibilità della NATO per una questione che il Governo di Parigi considerava vitale, ma di cui agli Stati Uniti non importava niente.

Il riferimento a Suez conferma che il conflitto scatenato contro l’Egitto dalle due ex potenze europee con la complicità di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale fu, insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque della politica internazionale nel secondo dopoguerra. Quando gli Stati Uniti, e pure l’Unione Sovietica – interessata a rientrare in Medio Oriente, dopo un esordio pro-israeliano – intervennero e imposero la cessazione delle ostilità, Gran Bretagna e Francia ebbero reazioni opposte.

A Londra i conservatori scelsero un nuovo primo ministro nella persona di Harold Macmillan, e dettero un colpo di acceleratore alla decolonizzazione formale, decidendo che il rapporto speciale come 51ª stella della bandiera statunitense era più importante dei loro vecchi sogni imperiali. La Francia conservò Guy Mollet alla testa del governo e decise testardamente che soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare la testa di fronte agli Stati Uniti. È così è stato sino all’avvento di Sarkozy, il quale liberandosi dell’indipendentismo gollista è tornato nella NATO, per poter riceve dalla Casa Bianca i vari permessi neocoloniali nel Mediterraneo. Ecco spiegato il fenomeno Libia, in poche parole. In pratica si spera che la fine degli Stati arabi laici, ma indipendenti (Libia e Siria) apra un varco nel quale entrerebbero i gruppi religiosi che avrebbero una crescente importanza. La scena, in maniera da dare all’Occidente il pretesto per entrare e “portare la democrazia”, però la loro. Ciò dimostra le vicende descritte in questo libro.

Ossia l’amministrazione guerrafondaia di Obama cerca di esorcizzare quanto accade sotto i suoi occhi nella penisola arabica e nel mondo arabo (rivolte – in maggioranza – sciite in Bahrein, Oman, Yemen e Arabia saudita, lenta ascesa dei Fratelli musulmani sunniti in Giordania, Egitto, nella stessa Libia conquistata, ancora moti soffocati in Tunisia e Algeria, espulsione e/o fuga degli ambasciatori israeliani da Ankara, Cairo e Amman) e cerca di esorcizzarlo per “riequilibrare” lo scacco matto nella regione, e continua a programmare la destabilizzazione della Siria.

E di rimando: i ribelli libici sono buoni. Gheddafi è cattivo. I ribelli siriani sono buoni, Asad è cattivo. Gli egiziani sono buoni, ma anche cattivi. I contestatori e dissidenti arabi del Bahrein, dell’Oman, dello Yemen e dell’Arabia Saudita sono cattivi.

Sono buoni, invece, i governi feudali di quegli Stati come pure buoni sono i governi al Maliqi, per l’Iraq e Karzai, per l’Afghanistan, imposti a mano armata dagli anglo-americani. Tunisini, algerini e marocchini, finché sono governati da regimi pro-Occidente sono naturalmente buoni. Se si rivoltano sono pericolosi e quindi cattivi.

Il brano riportato alle pagine 121-122, sviluppa il gioco di parola, ove si legge che: «[...] prende le mosse la logica di divisione del “Grande Medio Oriente” in regimi amici, o “moderati”, e regimi radicali e “fondamentalisti”. Al primo gruppo hanno fatto parte per tradizione il Marocco, la Tunisia, l’Egitto, la Giordania, al secondo gruppo invece la Libia, l’Algeria del FIS, la Siria e l’Iraq di Saddām Husayn. Lecitamente saremmo indotti a pensare che, in virtù di una certa affinità elettiva, i paesi della cosiddetta e monolitica “civiltà occidentale” siano stati più propensi a legarsi e stringere rapporti con i regimi laici, caratterizzati da politiche di marginalizzazione verso i movimenti islamici. Ma lo schema non regge se si considera che dei paesi nemici, addirittura del famoso “asse del male”, fa parte la Siria che, specie dopo il recente regime change in Iraq ed il conflitto in corso in Libia, resta l’unico paese arabo a tradizione socialista. Viceversa è notorio (e sottolineato a più riprese, tra gli altri, da Ahmed Rashid) come il regime del mullā ‘Umar, il “Principe dei Credenti” talibano, nel corso degli anni ’90 sia stato corteggiato da alcune cancellerie occidentali in merito a precisi progetti, poi abortiti, di approvvigionamento energetico. Anche l’esempio delle petro-monarchie del Golfo è significativo in tal senso. Il vero problema quindi non sembra essere il fantasma islamico che aleggia minaccioso per le strade di Damasco o di Algeri e Tripoli d’occidente, perché quello stesso “spettro” aleggia anche per le strade del Cairo, di Rabat e forse soprattutto di Amman».

Questo volume distrugge i luoghi comuni, le frasi fatte, le banalità di coloro che lavano i cervelli attraverso giornali e mass media, quelli con le palette in mano fra un concorso canoro, ed una trasmissione in cui “insegnano” chi è amico e chi no. È un libro completo e chiaro che tutti leggiamo senza rischiare di precipitare nell’erudizione, nell’eccesso di note, nella noia del particolarismo, grazie pure ad una cartografia curata con massima perizia ed eccellenza da Lorenzo Giovannini.

E per finire… un ricordo sull’Oman… la cui lotta di liberazione marxista-leninista degli anni Settanta era ricordata dalle trasmissioni di Radio Tirana, in lingue nazionale ed estere (italiano compreso) e da LP pubblicati in Francia [qui mostro il disco]. In Italia non se ne parlava.

Grazie.

 
“CAPIRE LE RIVOLTE ARABE” PER INFRANGERE I LUOGHI COMUNI DEI MEDIA OMOLOGATI di Aliena (da “Rinascita”)

Effetto domino? Contagio? Le cause delle agitazioni che stanno interessando l’area del Golfo Persico ed il Nordafrica sono profondamente differenti; tali dissomiglianze vengono illustrate in un fondamentale lavoro di Pietro Longo e Daniele Scalea, Capire le rivolte arabe: Alle origini del fenomeno rivoluzionario – edito pochi mesi fa per Avatar éditions e per l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).
A Firenze, il prestigioso Circolo Vie Nuove – ex Casa del Popolo del Pci – ha ospitato la presentazione del volume nell’ambito del tema Mediterraneo: Mare Mosso, avviato giorni addietro dagli interventi di Lucio Caracciolo e Umberto De Giovannangeli, per capire l’evoluzione politica, i nuovi equilibri, i traffici e il quadro socio-economico di questo teatro strategico che è il Mediterraneo. Il Circolo da tempo si segnala per iniziative e incontri culturali di primissimo livello nazionale; amministratore è Daniele Sordi.
L’incontro è stato organizzato da Alessandro Michelucci: direttore del Centro di documentazione sui popoli minacciati; esperto di minoranze; collaboratore dell’Università di Firenze sul progetto LanMob (dedicato ai problemi delle minoranze linguistiche europee); giornalista. Egli, inoltre, ha intessuto una fitta rete di contatti in Europa e in tutto il mondo e collabora a numerose testate cartacee e su internet.
Oltre all’autore Scalea, sono intervenuti Giovanni Armillotta, assistente di Storia dei Paesi afro-asiatici e islamici a Pisa, nonché direttore del periodico “Africana” (fra i sedici italiani consultati dall’ “Index Islamicus” dell’Università di Cambridge) e Vincenzo Durante, assistente ordinario di Diritto romano a Firenze, nonché saggista. “Si tratta di un gran bel libro, denso ed armonioso, di studiosi di alto profilo, orientalisti, ricercatori e redattori di ‘Eurasia’ – Rivista di studi geopolitici – non generici analisti improvvisati; una ricostruzione attenta, frutto di ricerche su un imponente materiale, lucida, scrupolosa e aliena da schemi interpretativi preconfezionati ed etnocentrici” ha osservato Durante.
Pietro Longo, arabista, è dottorando in Studi sul Vicino Oriente e Maghreb all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove si occupa di diritto musulmano e dei paesi islamici e nello specifico del cosiddetto Costituzionalismo islamico. Tra i suoi interessi ci sono anche la geopolitica e le relazioni internazionali del Vicino Oriente. Dal 2010 è nella redazione della rivista di geopolitica “Eurasia”. Daniele Scalea è laureato in Scienze storiche all’Università degli Studi di Milano, segretario scientifico dell’IsAG e redattore anch’egli della predetta rivista sin dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato il libro La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco Edizioni, Roma 2010).
Gli autori, entrambi giovanissimi – come messo in risalto da Armillotta: di Scalea si potrebbe credere sia “un vecchio docente forbito che conosce il russo alla perfezione, dalla modestia aulica e dal linguaggio stranamente attuale”, non fosse, in realtà, poco più che ventiseienne – fanno chiarezza sugli ideali e le aspirazioni che animano i nostri vicini arabi, tratteggiando le future fattezze del mondo, una volta che l’ondata della rivolta avrà preso la piega imposta, male che vada, da Casa Bianca, Londra e Parigi.
In particolare, ha ribadito Vincenzo Durante, il testo “disvela la struttura nascosta della retorica dei media occidentali sulla primavera araba, alcuni dei quali hanno enfatizzato il carattere eroico e quasi romanzesco delle rivolte dipingendole come movimenti popolari spontanei che mediante l’autorganizzazione e l’uso di mezzi tecnologici hanno rovesciato i regimi tirannici che da decenni li opprimono. Altri hanno seguito la linea della diffusione di notizie esagerate di proposito, dai caratteri grotteschi, in modo da involgere un clima favorevole alle rivolte e ai rovesciamenti di regime. Si pensi alla notizia della pratica, da parte degli ufficiali di Gheddafi, di distribuire alle truppe dosi di Viagra, sì da risvegliare gli istinti dei combattenti e spingerli ad effettuare stupri punitivi sulla popolazione femminile degli insorti. E in questo anche media arabi molto noti hanno le loro responsabilità. La prima vittima della guerra è la verità, avvertiva Eschilo già nel V secolo avanti Cristo”.
Ancora una volta, la stampa omologata ha dunque peccato di retorica e semplicismo, dispensandosi dal riportare le vere sembianze di un fenomeno molteplice e variegato, nonché dal riferire la natura dei complessi rivolgimenti che ne scaturiscono. Si è voluto dar ad intendere che i vari gruppi etnici di rivoltosi anelino ad equipararsi, volontariamente, alle forme di governo liberal-democratiche – ispirate al consumismo massificante – che ottenebrano i cervelli occidentali. Una spessa cortina fumogena – ovvero, il polveroso cover-up informativo – ha eclissato le proteste sciite in Arabia Saudita, Yemen e Bahrein, distorcendo al contempo l’ascesa del Fratelli musulmani sunniti e gli eventi occorsi in Libia e Siria. “Nel Golfo abbiamo dei Paesi che sostanzialmente sono delle monarchie autoritarie; regimi basati sul potere patrimoniale di poche famiglie. Laddove invece, in Paesi come la stessa Tunisia, l’Algeria e l’Egitto, abbiamo una società civile molto più dinamica, in cui esistono dei partiti politici che, in qualche modo, hanno già interiorizzato la dialettica partitica e il processo democratico. Il Golfo Persico è una realtà a sé stante, in cui a decidere sono quelle poche famiglie che hanno interesse a non far entrare nuovi attori nel discorso politico, per mantenere l’amministrazione delle risorse petrolifere o, comunque, degli idrocarburi” aveva tenuto a precisare Pietro Longo, nel corso di un’intervista rilasciata, all’inizio di marzo, a RaiNews24.
Concorde nella suddetta analisi, Giovanni Armillotta individua nella condotta dell’amministrazione guerrafondaia di Barack Obama un tentativo di esorcizzare l’accaduto e preservare la propria immagine dall’onta dello scacco matto subito nella regione fra Iraq e Afghanistan e nella fine del progetto unipolare. Del resto, tale atteggiamento sembra essere perfettamente in linea con le aspirazioni dell’uomo da 110 milioni di dollari – la somma di denaro investito da corporation, lobby e banche nella prima, fragorosa campagna mediatica del presidente amerikano.
A parere di Durante, “quel che sta succedendo a un passo dalle nostre case, dalla Tunisia, al Bahrein, alla Libia viene spiegato incrociando dati, cifre, verifiche economiche e, ovviamente, illustrando le specificità culturali e socio-economiche, tra eterogeneità e complessità, di un mondo che non è speculare ai pregiudizi occidentali, alle teorie dello scontro di civiltà, alle teorizzazioni dei neo-con americani e dei loro emuli italiani sull’inconciliabilità ed incompatibilità fra islam e democrazia”. Ciascuno scenario della realtà vicinorientale è stato sviscerato nelle sue prerogative specifiche; il volume in questione rappresenta perciò uno squarcio nel velo dell’oblio e della mistificazione che ha contraddistinto, sinora, il pensiero unico dominante.
L’Italia, al di là delle proprie alleanze atlantiche, non può certo ignorare le imminenti e assai probabili ripercussioni di quanto si sta verificando nello spazio mediterraneo: presto o tardi, dovrà confrontarsi con varie incognite e complicanze – ad iniziare dalla crisi libica, di cui sta già pagando lo scotto sia in termini di credibilità, per aver violato il Trattato di Amicizia con la Libia, che di ingenti spese militari; nonché, con il peso dell’incertezza sul futuro approvvigionamento energetico della penisola, e la fine dell’egemonia imprenditoriale del Bel Paese sul e nell’ex Quarta Sponda.
Il pubblico, folto, ha posto domande numerose e stimolanti nel dibattito a conclusione degli interventi. In conclusione va detto che il volume è un primo passo verso la verità, quale liberazione dal pregiudizio: in tal senso, gli autori ci forniscono un indispensabile strumento.


“Capire le rivolte arabe” a Modena

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Si è tenuto sabato 8 ottobre 2011 alle ore 16.00, a Modena presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico in Piazzale Redecocca 1, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori i due autori: Pietro Longo e Daniele Scalea, rispettivamente ricercatore e segretario scientifico dell’IsAG.

L’organizzazione è stata a cura di “Pensieri in Azione” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Di seguito il video ed alcune immagini dell’evento (cliccare su ogni singola immagine per ingrandirla).

 
Prima parte:

Seconda parte:

 
Filippo Pederzini introduce i relatori

Un momento della conferenza

Il pubblico in sala

Daniele Scalea pronuncia il suo intervento

L'intervento di Pietro Longo

T. Graziani al IX Forum di Rodi “Dialogo di Civiltà”

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Dal 2003 si svolge annualmente sull’isola di Rodi (Grecia) il World Public Forum “Dialogue of Civilizations”, presieduto da Vladimir Jakunin ed organizzato in collaborazione con vari enti nazionali ed internazionali tra cui UNESCO, Lega Araba, ASEF e IPO. Anche quest’anno, in occasione della nona edizione svoltasi dal 6 al 10 ottobre, è stato invitato Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG.

Il presidente Graziani ha preso parte a due panel, rispettivamente su Structural problems of the contemporary economy e BRICS – prospects and dialogue collaboration format, discutendo i rapporti presentati dai relatori.

Tra i partecipanti, oltre al fondatore e presidente del WPF Vladimir Jakunin (presidente delle Ferrovie Russe ed ex ministro) ed al presidente Graziani, si segnalano Alfred Gusenbauer (ex cancelliere austriaco, co-presidente del WPF), Johann Galtung (fondatore del Oslo Peace Research Institute), il metropolita Vladimir (in rappresentanza del Patriarcato di Mosca) e Michail Bogdanov (vice-ministro russo degli Affari Esteri), oltre ad un gran numero di studiosi ed addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo.

Di seguito alcune foto dell’evento (clicca sulle singole immagini per visualizzarle nella loro interezza).

 
Il ricevimento di benvenuto

Foto di gruppo per i partecipanti al Forum

Il Forum è un'occasione d'incontro per rappresentanti di varie nazioni e fedi

La platea

V. Jakunin apre i lavori

V. Jakunin, presidente del WPF, e Julia Kinash, a capo dello Youth Time International Movement

L'evento è stato seguito dai media internazionali

Lo splendido scenario di Rodi

Persone da tutto il mondo sono convenute a Rodi

Un momento del Forum

Un momento del Forum

Un panel al lavoro

Foto di gruppo: Tiberio Graziani è nella fila seduta, il primo a destra

Evgenija Kirilova (Estonia)

Ruslan Grinberg (Accademia delle Scienze russa)

Informazione e “soft power” tra Russia e Europa: T. Graziani a Radio Vaticana

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG, è stato intervista da Eliana Astorri per “Radio Vaticana” il giorno 23 novembre, alla vigilia della sua partenza per la conferenza internazionale di Parigi su Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa. L’audio dell’intervista può essere ascoltato cliccando qui. Di seguito proponiamo la trascrizione integrale.

Prima di introdurre il convegno, ci può presentare la rivista dell’IsAG?

Si tratta di una rivista di studi geopolitici giunta ormai al suo ottavo anno di vita. È una rivista che si è accreditata nell’ambiente accademico e scientifico ma anche in quello giornalistico e della comunicazione in senso più ampio. Tratta i temi della geopolitica attuale ed offre analisi e prospettive di medio e lungo termine. In particolare focalizza la sua attenzione nella massa continentale eurasiatica e da un anno a questa parte, sulla base degli studi e del gruppo di lavoro creatosi attorno alla rivista, è stato fondato un istituto di studi geopolitici, l’IsAG.

Domani a Parigi la conferenza internazionale sulle questioni legate al giornalismo internazionale contemporaneo: qual è lo scopo di questo incontro?

Lo scopo di questo incontro è sostanzialmente di trovare dei punti di convergenza tra gli operatori della comunicazione russi e dell’Unione Europea. In particolare saranno dibattute alcune tematiche, che sono quelle relative all’interesse nazionale ed al giornalismo che si occupa delle relazioni internazionali. Poi saranno dibattuti temi legati alla deontologia, e dunque al comportamento etico dei giornalisti e dei loro editori. In particolare ci si soffermerà sull’influenza dei mass media sulla formazione della cosiddetta opinione pubblica. Questo è un tema abbastanza delicato se messo in rapporto alle relazioni internazionali: l’influenza del giornalismo è spesso coerente con alcune dottrine geopolitiche. Infatti si parla spesso del giornalismo come strumento del soft power.

Globalizzazione e i moderni strumenti di comunicazione, dal web ai social network, hanno cambiato o stanno cambiando il modo di fare informazione?

Certamente: l’hanno cambiato e c’è un’evoluzione in itinere, continua. C’è un effetto massiccio dell’informazione ed un ventaglio d’informazioni veramente enorme al quale ancora non siamo abituati. Quindi occorrerà del tempo, anche da parte di chi ascolta, legge e s’informa, per metabolizzare e filtrare in materia opportuna le informazioni erogate dai mass media.

Mentre i classici mezzi d’informazione (stampa, televisione) che ruolo hanno oggi nelle relazioni internazionali?

I mezzi tradizionali hanno ancora una grande forza ed incidono moltissimo nei comportamenti dei governi. Basta pensare ad esempio ad alcuni importanti giornali e riviste d’informazione economica, che riescono in pratica ad alzare o abbassare il ranking di alcune nazioni ed influenzano anche i comportamenti dei governi. Sono quei giornali che vengono letti da imprenditori, da politici, da intellettuali di alto rilievo e che quindi influenzano, in seconda battuta, l’opinione pubblica.

Quale sarà il tema del suo intervento domani alla conferenza?

Io mi occuperò proprio della relazione tra mass media e soft power: vale a dire dell’utilizzo e strumentalizzazione dell’informazione, e quindi dei mezzi d’informazione, ai fini d’alcune prassi geopolitiche. In particolare m’occuperò di come certa stampa cerchi d’influenzare ed orientare l’opinione pubblica.

USA, Cina e rivolte arabe: F. Brunello Zanitti intervistato da Radio Italia IRIB

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato “Radio Italia” dell’IRIB a proposito dell’intervento NATO in Libia. Brunello Zanitti, dottore in Storia della società e della cultura contemporanea all’Università di Trieste, è autore del recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto (IsAG / All’insegna del Veltro, Roma-Parma 2011).
Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 

Dott. Brunello Zanitti nel suo ultimo articolo lei afferma che l’intervento della NATO in Libia nel contesto della “primavera araba” dimostra ancora una volta come l’Occidente non abbia abbandonato i suoi disegni egemonici. Si potrebbe spiegare meglio?

Ritengo che nel contesto della cosiddetta “primavera araba” le diverse potenze, soprattutto gli Stati Uniti, hanno l’interesse ad indirizzare queste rivolte secondo i propri disegni strategici. Le sommosse hanno senza dubbio un carattere di malcontento popolare molto importante dovuto a differenti cause. Ma naturalmente gli Stati Uniti, che hanno interessi globali, e i paesi della NATO hanno come obiettivo l’incanalare secondo le proprie volontà quello che sarà il futuro della Libia. In questa fase storica esiste una forte competizione a livello globale, soprattutto fra la Cina e gli Stati Uniti. Gli eventi che si sono verificati negli ultimi mesi nel continente africano dimostrano questa forte competizione tra le due potenze. Può essere una lettura di quello che accaduto in Libia, senza comunque dimenticare che ci sono altri interessi regionali (Arabia Saudita, Turchia, Iran) nell’indirizzare queste rivolte per aumentare la propria influenza nazionale. Dunque, penso che uno degli obiettivi degli Stati Uniti e dell’Occidente sia quello di favorire la nascita di un governo che poi sia legato strettamente al mondo occidentale.

Si potrebbe spiegare meglio sul concetto di colonizzare l’Africa per colpire la Cina? Qual è il motivo di questa sua opinione?

Si possono fornire diversi esempi. Gli Stati Uniti hanno favorito la divisione del Sudan, la Francia è intervenuta in Costa d’Avorio. Poche settimane fa gli Stati Uniti hanno inviato delle truppe in Uganda, ci sono bombardamenti quotidiani in Somalia. Questi interventi molto forti dell’Occidente possono essere letti come una sorta d’azione per prevenire la presenza economica della Cina. Pechino ha interessi molto forti in Africa; tutt’ora anche in Libia. L’Occidente per prevenire questa maggiore influenza cinese deve in certo senso cercare di ostacolarla.

Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali (Modena)

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Si è tenuta a Modena sabato 5 novembre 2011 alle ore 15.30, presso la Sala conferenze della Circoscrizione Centro Storico di Piazzale Redecocca 1, la conferenza “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”.

Sono intervenuti come relatori: S.E. Jakhongir Ganiev (ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Gairat Juldashev (secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG), Gian Paolo Caselli (docente all’Università degli Studi di Modena) ed un rappresentante di ITER Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema” ed il patrocinio del Comune di Modena e dell’Università degli Studi di Modena.

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